Carolina, abbiamo pensato di intervistarti perché la tua storia è particolare. Vieni da una cooperativa di Workers By Out: siete nati da una crisi. La vostra azienda stava fallendo, e voi l’avete rilevata investendo i vostri risparmi e le liquidazioni per rilevare l’azienda e continuare a produrre antifurti. Ci vuoi dire in due parole qualcosa in più sulla vostra storia?

Beh… è stata ed è per noi una grande sfida che ci ha cambiato la vita; è una storia di persone, di volontà, di sacrifici, di paura e di coraggio, ma soprattutto di cooperazione. Siamo sempre stati dipendenti, con la sicurezza dello stipendio a fine mese, delle ferie in estate, di essere pagati se stavamo a casa con la febbre. Poi abbiamo cominciato a non dormire più la notte perché da un giorno all’altro, con la crisi della azienda in cui lavoravamo, abbiamo cominciato a non sapere più se saremmo riusciti a pagare il mutuo, a comprare i libri di scuola ai figli e i nostri sogni, la nostra quotidianità, sono andati in mille pezzi. A 50 anni, questa l’età di molti di noi, ci siamo trovati a dover ricominciare tutto da capo.

In questi momenti ci si sente avviliti, deboli, doloranti. E’ un po’ come morire. Ma piuttosto che lamentarci, abbiamo deciso di rimboccarci le maniche e di credere che avremmo potuto continuare a lavorare, a produrre allarmi, che era la cosa che sapevamo fare meglio. Abbiamo deciso di assumerci tutto l’onere e la responsabilità di una rinascita e facendo appello a tutto il nostro coraggio siamo diventati protagonisti di scelte difficili.

Abbiamo dovuto recuperare contemporaneamente fiducia e risorse economiche. Quando bussi alla porta di una banca, di un fornitore o di un cliente non basta essere convincente: devi abbattere quel muro legittimo di scetticismo e diffidenza verso un soggetto nuovo che si muove in una realtà incerta e difficile. Abbiamo bussato a centinaia di porte, stretto centinaia di mani, percorso più di 3000 chilometri per sondare il terreno e per capire cosa era rimasto di tutto quello che avevamo seminato in passato.

Certe volte le risposte sono state durissime, difficili da accettare, ma non abbiamo pensato mai -neanche per un solo istante, di chinare la testa, di abbandonare il nostro progetto anche se ci sono stati momenti faticosi, in cui la tentazione di fermarsi si è fatta sentire. Ma abbiamo resistito: forse perché davvero l’unione fa la forza.

Abbiamo insistito per riottenere la nostra credibilità. Certo è sparito il cartellino per timbrare l’entrata in azienda, è scomparsa l’idea di lavorare 8 ore al giorno, di limitarci ciascuno alla propria mansione. Ci siamo abbassati lo stipendio. Abbiamo messo a frutto tutto quello che avevamo imparato in passato. Via via lo spirito di sacrificio ha iniziato a convivere con l’idea che potevamo davvero farcela e con la soddisfazione di darci da fare per qualcosa di nostro.

Piano piano le banche hanno iniziato ad ascoltarci e siamo stati capaci di trasmettere ai nostri interlocutori quella fiducia che noi per primi stavamo ritrovando. Qualche cliente non ci ha abbandonato. Qualche fornitore ha deciso di continuare a credere in noi. Abbiamo incontrato l’Italia migliore, quella delle brave persone, quell’Italia che -come dice la nostra Costituzione- si fonda sul lavoro, nobilita e protegge il Made in Italy.

Oggi Patrolline, la nostra cooperativa, è produttiva, virtuosa, semplice e dà da vivere a 17 famiglie. Ci piace credere che la nostra storia, di cui siamo tanto orgogliosi, possa ispirare anche altri in questo momento di crisi.

E oggi? Come vivi questo momento? In che modo stai attraversando la crisi?

Per me è un momento di grande disorientamento. Era inizio febbraio 2020 quando, insieme al mio collega e socio Angelo, mi recavo in Israele per incontrare alcuni potenziali clienti che avevano dimostrato interesse nei nostri prodotti e sapere che quello sarebbe stato il mio primo ma anche ultimo viaggio del 2020, a pensarci adesso stento ancora a crederci.

Il 21 febbraio il nostro mondo è cambiato ed è successo partendo da una cittadina, Codogno, situata proprio nella regione in cui vivo e lavoro e che rappresenta l’esempio perfetto del mondo globalizzato, interconnesso. La Lombardia luogo di produzione, dove le botteghe artigianali e le piccole e medie imprese valorizzano e danno risalto al Made in Italy, di traffico, di scambi, di arte, di cultura e quindi per sua natura esposto al contagio. Aperto alla diffusione di un virus sconosciuto, imprevedibile, mortale nelle sue forme più gravi che ci ha colpiti di sorpresa, impreparati, scettici sulla sua reale forza distruttiva. All’inizio non mi sono tanto preoccupata perché alla fine entrambi i miei figli, residenti all’estero in Europa, mi dicevano che da loro la situazione era relativamente tranquilla, il virus non era così presente come da noi e anche tra i miei parenti, amici e colleghi nessuno si era infettato o aveva avuto casi di Covid-19 in famiglia, cosa che invece purtroppo è accaduta in questa seconda ondata dove mi sono trovata a piangere la perdita di persone a me tanto care.

Dal punto di vista dell’impresa, la notizia di dover chiudere durante il lock-down ci ha dato gli stessi pensieri e sensazioni di quando il nostro datore di lavoro ci comunicò, a Marzo del 2015, che da lì a poco avrebbe portato i libri in tribunale e che di tutto quello che si era costruito in 30 anni di vita della azienda non sarebbe rimasto più nulla. Per fortuna anche in questo caso il sostegno tra noi soci -soprattutto durante le riunioni online- è sempre stato di aiuto anche a chi magari aveva delle situazioni abitative più complesse o non se la sentiva di relazionarsi più di tanto. Questo a volte ha creato qualche malumore, ma la cosa bella è che abbiamo sempre parlato, chiarito e risolto gli attriti e appena è stato possibile abbiamo ripreso la voglia e la forza di ricominciare a seminare in vista della ripartenza.

Con la convinzione che sempre più persone si sarebbero approcciate al “mondo virtuale” abbiamo aperto sul nostro sito aziendale una vetrina e-commerce, abbiamo concluso degli accordi strategici con due società italiane di rilievo internazionale e finanziariamente parlando ci siamo adoperati per riuscire ad ottenere tutti gli aiuti che lo Stato stava mettendo a disposizione per le aziende costrette alla momentanea chiusura.

Queste azioni devo ammettere mi hanno resa più forte, mi hanno dato tanta energia e voglia di fare e unite alla consapevolezza della maturazione che avviene nel processo dall’essere dipendente a diventare imprenditore in qualche modo hanno contribuito ad accrescere la mia autostima.

Siamo stati in grado di onorare gli impegni assunti, abbiamo soddisfatto la clientela non appena la produzione è ripartita, le banche ci hanno concesso dei finanziamenti alle nostre condizioni e sui nostri canali social abbiamo ricevuto numerosi apprezzamenti: cose che oggi sono motivo per noi di grande soddisfazione anche agli occhi di chi ci guarda da fuori.

Credo che se avessi vissuto questa situazione da dipendente certamente avrei provato più ansia e paura perché non avrei avuto il controllo della situazione e non avrei saputo se la cassa integrazione mi sarebbe stata pagata dall’azienda.

Mentre scrivo tutto questo sono più che mai consapevole dei miei privilegi e mi considero una persona fortunata, ho un tetto sopra la testa e vivo in una casa accogliente circondata da un gran bel giardino che durante il lock-down, negli interminabili fine settimana, mi ha permesso di evadere e di non stare rinchiusa dentro le mura come purtroppo è accaduto a tanta gente ma soprattutto non mi sono sentita mai sola, grazie alla tecnologia della quale non sono certamente una grande fanatica ma che è servita allo scopo e alle chat di gruppo che mi hanno permesso durante le festività di Pasqua anche di giocare a tombola con gli amici o semplicemente di fare festa.

 

Cosa vuoi trovare dopo la crisi: quali desideri hai per te e il tuo futuro, in che stato d’animo, situazione vorresti trovarti quando la turbolenza di questa fase si sarà acquietata

Un tema che oggi mi fa molto riflettere è quello di chi è senza casa, di chi improvvisamente -per colpa di questa pandemia- ha perso il lavoro, ha visto precipitare nel baratro una vita di sacrifici.

I mezzi di comunicazione ci ripetono instancabilmente la necessità di assumerci la nostra responsabilità, specie quella che abbiamo nei confronti della collettività.

L’epidemia si è presa tutto: le homepage dei giornali, i discorsi a cena, le piazze, i cinema, i teatri, le biblioteche… l’invisibile è riuscito in poche settimane a coinvolgere l’intera umanità nella stessa condizione e sotto molti punti di vista, questa crisi ci ha fatto capire fino a che punto siamo interdipendenti gli uni dagli altri. Forse lo sapevamo già ma il ritmo assillante della nostra vita ce l’ha fatto in qualche modo dimenticare.

Questo brutto mostro invece ci ha ricordato che siamo tutti collegati, e siamo connessi alla Natura che, senza la presenza invadente dell’uomo, si è presa una sorta di rivincita ma che senza un vero e sincero impegno da parte di tutti sarà ancora e continuamente sfruttata e depredata delle ricchezze più belle.

Trovo che oggi, inevitabilmente, dobbiamo porre l’accento sulla comunità, anziché sull’individuo e imparare a prenderci cura l’un dell’altro in qualsiasi ambito e provare concretamente ad essere più “buoni” …..finché c’è tempo.

 

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