Selezionare o formare?

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Formare competenze per l’azienda o selezionare competenze già date? Se evitiamo le trappole retoriche, la domanda è di quelle che -nella prassi- dividono: lo sa bene chi si occupa di selezione, e lo sanno bene le persone che cercano lavoro.

Da un lato ci sono imprese che cercano competenze (hard e soft skill) già date, lavoratori formati che possono essere operativi molto velocemente: è il caso, ad esempio, di imprese che non hanno tempi e mezzi per accompagnare la crescita di competenze, ma anche il caso di chi vorrebbe e non sa come fare (di questo si occupa il nostro testimonial di questo numero).

Dall’altro ci sono imprese che sanno che ogni contratto di lavoro è -in qualche modo- un incontro in cui ciascuno deve mettersi in gioco per “far funzionare” un rapporto.

In mezzo ci sono le storie di uomini e donne con storie e competenze diverse, che si muovono in un mercato difficile, in bilico tra bisogni economici e progetti per la propria vita.

Il colloquio di lavoro è solo l’inizio: cosa succede dopo? In che modo le aziende affrontano il tema delle competenze?

Competenza: materiale mobile

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Non ci sono scorciatoie… il lavoratore giusto non esiste così come non esiste l’impresa giusta perché ogni lavoro non è un incastro, ma un percorso in cui impresa e lavoratore si incontrano e cambiano. Per un’azienda ogni assunzione è un investimento di tempo e risorse che si giustifica solo nel tempo: è certo necessario che le funzioni specifiche siano svolte, ma le persone devono anche crescere con i cambiamenti dell’azienda, adeguarsi al contesto aziendale, conoscere e far propri gli obiettivi e l’identità dell’azienda. E’ qui che entrano in gioco le cosiddette ‘soft skill’ che l’azienda deve sostenere e accompagnare. Ce ne parla Beppe Bruni, direttore delle risorse umane di CAUTO: una cooperativa sociale, ma anche una delle più grandi imprese bresciane con un fatturato che supera i 25 milioni di euro. “Le competenze tecnico-specifiche hanno la caratteristica di essere relativamente obiettive, abbastanza facilmente misurabili e potenzialmente trasferibili. Le competenze trasversali, invece, fanno riferimento al “saper essere” e non si tratta di rilevarne la presenza o l’assenza ma la qualità: la capacità di leggere il contesto, di porsi rispetto a questo, di valorizzare le risorse, di gestire l’ineludibile ansia del cambiamento, di rileggere quanto accade integrando l’emotività ed il distacco, di saper vivere l’empatia intesa come “sapersi concepire nella situazione dell’altro” e non nella semplificazione di “mettersi nei panni dell’altro” (che ci andranno sempre larghi, stretti, scomodi). Per leggere tutta l’intervista, clicca qui.

Abili e arruolati

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Il punto è che non c’è tempo! Le aziende corrono, il mercato corre, la concorrenza corre. Non c’è tempo per formare competenze. Alle imprese servono lavoratori che reggano il ritmo, che sappiano svolgere bene e velocemente la loro mansione, che riescano a collocarsi in fretta nel contesto aziendale. In fondo è sempre stato così: qualunque apprendista sa che il lavoro ’va rubato’ (così si dice), guardando e cercando di imparare da chi lo sa già fare. Oggi questo è ancora più vero perché anche in un’impresa le competenze necessarie cambiano alla velocità delle tecnologie che richiedono sempre nuove specializzazioni. Il mercato del lavoro del resto si è velocemente adeguato a questo cambiamento: il posto fisso non esiste da un bel po’, mentre fioriscono contratti a termine o intermediati da agenzie interinali che consentono di acquisire competenze fresche e su misura. Non a caso esiste un mercato fiorente di formazione anche per gli adulti: ciascun lavoratore sa che deve investire sulla propria formazione e mettere a valore le esperienze che ha già fatto. Può essere un problema per i giovani che mostrano una forte propensione al cambiamento e a vivere esperienze diverse – afferma Marco Bottarelli, una lunga carriera nella gestione delle risorse umane – ma, almeno per ora “le competenze tecniche, le hard skill, sono al primo posto nella valutazione. Per il recruiter sono più facili da indagare, questo anche nel senso che rappresentano una maggiore garanzia e tutela per il selezionatore che ha “nero su bianco” quello che sta cercando.” Per leggere tutta l’intervista, clicca qui.

Testimonial: Fabio Ferri

Lui ha passato la cinquantina, capelli corti, brizzolati, e una lunga storia cooperativa che gli brilla nello sguardo deciso. Nessuna ingenuità in lui, ma la consapevolezza di una sfida lunga una vita che non smette di appassionarlo: accompagnare al lavoro persone che il mercato espelle. Perché chi lavora nelle cooperative di inserimento lavorativo lo sa: dalla possibilità di avere un lavoro passano -soprattutto per persone fragili- non solo un reddito, ma anche relazioni, fiducia nelle proprie capacità, riconoscimento del proprio valore e delle proprie competenze… passa quello che dal lavoro, bello o brutto che sia, passa per tutti: una parte importante della nostra vita.

Lui, Fabio Ferri, è il presidente della cooperativa sociale di inserimento Alveare di Bollate, 20 anni di storia, che a vederla sembra un posto di lavoro come tanti altri: in un’area industriale recuperata alla periferia di Milano circondata da altre imprese e qualche ufficio, c’è il loro capannone. Dentro, una quarantina di persone si affaccendano tra lunghi tavoli da lavoro ad assemblare componenti, confezionare scatoloni, gestire pratiche amministrative con un grosso display che monitora commesse e consegne. Dietro, negli uffici, c’è la squadra che si occupa di marketing digitale e smanetta tra computer e studi di dati. 

Sembra un’impresa… e lo è, ma fa il miracolo che fanno le cooperative di inserimento lavorativo: almeno un terzo dei loro dipendenti non troverebbe occupazione nel mercato del lavoro: sono persone con disabilità fisica o psichica, o hanno alle spalle storie di dipendenza, di carcere, di gravissima emarginazione. E in queste cooperative invece trovano lavoro, formazione, accompagnamento a rimettersi in gioco per costruirsi un progetto che spesso non è solo di lavoro, ma anche di vita. La cooperativa Alveare per altro ne ha assunti 26, più di due terzi, ben oltre i minimi stabiliti dalla legge… per dire.

Sembra lavoro… e lo è, ma è anche una rivoluzione ostinata e gentile, perché la collaborazione tra Alveare e Amazon sta favorendo l’inserimento lavorativo di persone con disabilità nella multinazionale americana in un percorso di confronto e miglioramento quotidiano. E lo fa a partire da quello che per le cooperative di inserimento lavorativo è valore centrale: leggere di ogni persona -al di là delle difficoltà- le potenzialità, le competenze, le motivazioni, i desideri… e accompagnarli nel diventare un progetto di lavoro. 

E’ andata così: Gli inserimenti lavorativi di persone con disabilità fino ad alcuni anni fa risultavano complessi. ‘Cercavano persone pronte per il lavoro -racconta Fabio- e non le trovavano anche perché applicavano tecniche di selezione del personale che in alcuni casi non tenevano conto delle best practice da adottare con persone con disabilità’. Ad Amazon i colloqui sono molto centrati sulle attitudini personali, per cui è abbastanza usuale sentirsi fare domande che non hanno a che fare con le mansioni da svolgere, ma indagano il modo in cui le persone hanno gestito situazioni critiche o affrontato una sfida nuova o raggiunto grandi risultati. Ad esempio può capitare di sentirsi chiedere ‘raccontami di una volta in cui hai gestito qualcosa al di fuori dalla tua area di responsabilià?’  oppure ‘raccontami di quando non hai solo raggiunto un obiettivo ma sei andato ben oltre le aspettative’. Questo genere di domande indaga l’adesione ai Leadership Principles di Amazon, che, pur essendo prettamente attitudinali, possono essere non facili da applicare per persone con scarsa esperienza lavorativa, oppure per una persona non vedente, autistica o con importanti minorazioni motorie.

Amazon allora (era il novembre del 2018) si è messa a cercare una cooperativa sociale con cui collaborare per l’inserimento lavorativo: esiste infatti un dispositivo normativo (l’articolo 14 della legge 68/99) che consente alle aziende l’assunzione di persone disabili attraverso le cooperative sociali di inserimento lavorativo affidando loro commesse di lavoro sufficienti a coprire il costo dei lavoratori inseriti. Amazon è Amazon, e quindi ha cercato on line. Alveare è Alveare, e fa marketing digitale molto bene: è così che si sono conosciuti.

All’inizio l’idea era semplicemente quella della delega ad Alveare di servizi di profilazione di clienti che la cooperativa poteva svolgere assumendo disabili e facendosi carico del loro percorso verso il lavoro. Ma la rivoluzione è iniziata trasformando una delega in una relazione costruttiva tra Amazon, la cooperativa e la persona inserita. 

Le prime 4 persone individuate per i tirocini inizialmente non parevano adatte. La scommessa di Alveare è iniziata qui: hanno raccolto la sfida e hanno aperto i 4 tirocini lavorando in parallelo su tutti i fronti: la cooperativa si è messa in gioco ‘andandosi a prendere’ le 4 persone, sostenendole, accompagnandole, adattando il percorso lavorativo alle loro caratteristiche.  I 4 tirocinanti si sono messi in gioco affrontando paure e resistenze, misurandosi con un lavoro che appariva difficile da reggere. Amazon si è messa in gioco a sua volta, accettando un percorso non ortodosso (che per una impresa da 10mila dipendenti e fatturati miliardari non è scelta scontata). 

Non è neanche da dire: i 4 tirocini sono diventate 4 assunzioni, e da qui ne sono nate molte altre. 14, per l’esattezza… ma i numeri continuano a crescere. E anche se qui li citiamo come numeri, sono persone e storie, come quella di Paolo, che ha 28 anni e -giovanissimo- è rimasto paralizzato per un grave incidente. Quando ha ricevuto la proposta di lavoro Paolo in prima battuta avrebbe voluto rifiutare: abita lontano da Milano, temeva di non farcela a reggere la fatica degli spostamenti, la tensione del lavoro… pensava di non essere bravo abbastanza malgrado la laurea, malgrado il desiderio di provarci. Alveare ha costruito per lui un percorso su misura: ha alternato lavoro in presenza e a distanza, lo ha accompagnato nell’apprendimento di un lavoro che era nelle sue corde anche se lui non ci credeva, lo ha sostenuto, formato, preparato… e non solo Paolo oggi supporta con successo attività di vendor management, e presto potrebbe continuare il percorso di crescita professionale direttamente in Amazon.

Già, perché anche l’azienda è cambiata nel frattempo: Amazon, che noi vediamo come  troppo grande per essere davvero flessibile, nell’incontro con Alveare è cambiata (che poi è questo che succede quando un incontro avviene davvero). La referente del personale ha fatto un corso per disability manager, ha implementato nuove prassi per migliorare il modo in cui Amazon affronta in colloqui con le persone con disabilità, ed è lei, oggi, che forma i colleghi all’accoglienza e alla scelta delle mansioni più adatte alle persone con difficoltà che entrano in azienda, e sta predisponendo dei cambiamenti nelle sedi aziendali per renderle ancora più adatte per l’inserimento di persone con disabilità.

Eccola, la rivoluzione ostinata e gentile di Alveare. Ostinata nella determinazione al cambiamento, gentile nella ricerca di alleanze per cambiare e rivoluzionaria negli esiti: non accettare l’idea di un mercato del lavoro rigido che ‘passa al setaccio’ le persone per selezionare ‘le più adatte’. Anche il lavoro è un incontro in cui mettersi in gioco, e in un incontro tutti hanno uno spazio di possibilità.

Se non fosse una rivoluzione sembrerebbe una favola col lieto fine, così rubiamo il finale alla Cenerentola di Rossini che nell’aria conclusiva canta a gran voce ‘tutto cangia a poco a poco, cessa al fin di sospirar’.

Intervista a Beppe Bruni

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Sono davvero molto contento di intervistare Beppe Bruni, direttore delle risorse umane di CAUTO. Anche se, lo ammetto, la cosa mi fa anche un po’ sorridere: perché Beppe è (anche) un caro amico. Quest’anno di anni ne compie 50 tondi tondi e, prima di lavorare in CAUTO, è stato responsabile del servizio di integrazione lavorativa presso l’ASL di Brescia. Oggi dirige l’area risorse umane di una delle più grandi imprese bresciane – 500 dipendenti circa, con un volume d’affari di oltre 25 milioni di euro – che, da 25 anni, progetta e svolge servizi ambientali rivolgendosi sia a clienti pubblici che privati (aziende e cittadini). Un esempio concreto di come la sostenibilità integrata possa generare lavoro vero.

Beppe, tanto si dice e si scrive sulle cosiddette “competenze trasversali”. Cosa sono per CAUTO? Quale relazione esiste per voi con le competenze più tecnico-specifiche?

Ogni semplificazione (produttiva, organizzativa, culturale) è tanto necessaria per procedere quanto inutile per evolvere. Le competenze tecnico-specifiche hanno la caratteristica di essere relativamente obiettive, abbastanza facilmente misurabili e potenzialmente trasferibili. Le competenze trasversali, invece, fanno riferimento al “saper essere” e non si tratta di rilevarne la presenza o l’assenza ma la qualità: la capacità di leggere il contesto, di porsi rispetto a questo, di valorizzare le risorse, di gestire l’ineludibile ansia del cambiamento, di rileggere quanto accade integrando l’emotività ed il distacco, di saper vivere l’empatia intesa come “sapersi concepire nella situazione dell’altro” e non nella semplificazione di “mettersi nei panni dell’altro” (che ci andranno sempre larghi, stretti, scomodi). Quindi la scelta non è fra presenza di caratteristiche tecniche e presenza di caratteristiche trasversali; la scelta è se procedere con l’assunzione di una persona che eccelle sul piano tecnico pur preoccupando sul piano trasversale.

La domanda che CAUTO si pone è: consapevoli che l’ideale è la selezione di persone con buone competenze trasversali ed in possesso di adeguate competenze tecniche, esistono ambiti in cui sia sensato privilegiare l’eccellenza tecnica (riparare mezzi, smontare mobili, elaborare un bilancio, etc.) anche a fronte di presunte criticità nello stare nella complessità? La risposta è sì, con alcune precisazioni:

  1. L’urgenza: a volte il bisogno immediato per l’organizzazione è tale da “accontentarsi” della competenza tecnica specifica, in assenza di candidati in possesso anche di buone competenze trasversali;
  2. Fondamentale la lettura del contesto e la promozione del cambiamento: quando si genera una situazione che “costringe” ad accontentarsi, deve essere letta come un’emergenza (ossia ciò che emerge) e bisogna valutare un piano di intervento che faciliti il suo superamento, attraverso interventi formativi o di supporto;
  3. La consapevolezza di quanto sopra è vitale, altrimenti la persona assunta in base alla capacità di “fare” pur nella criticità di “stare” sarà letta in futuro come “incapace”, quando si riuscirà a modificare il contesto.

Tra le imprese attive nella provincia di Brescia, CAUTO è una delle più rilevanti dal un punto di vista occupazionale: solo 68 su 27.570 (0,25%) sono, infatti, quelle che superano i 300 dipendenti. In una realtà di tali dimensioni, come dialogano “competenze trasversali e competenze specifiche” all’interno del processo di selezione? Quanto peso viene dato alle une ed alle altre?

In via teorica si vorrebbe sempre privilegiare la presenza di buone competenze trasversali, in termini pratici alcune specifiche situazioni non permettono di effettuare la scelta ideale. Un esempio è costituito dal reclutamento di persone con patente C, dove bisogna spesso “accontentarsi” del mero possesso del titolo di guida, pur restando invece fondamentali competenze relazionali e di tenuta della complessità. In termini di “peso” la presunzione è che, se c’è il tempo e l’organizzazione per farlo, è molto più facile integrare una competenza tecnica carente che una competenza che afferisce alla modalità di essere.

Una curiosità: attivate ricerche solo al manifestarsi di un bisogno preciso o ne avete di costantemente attive? Se sì, concentrate su quali profili?

Per alcune fattispecie la ricerca è costantemente attiva, al fine di ridurre il rischio di “accontentarsi” per l’urgenza. Per fornire alcuni esempi: autisti patente C, programmatore informatico, contabile. Esistono poi ruoli e funzioni, per lo più organizzative, per i quali accontentarsi sarebbe oltremodo critico; anche in questi casi le ricerche sono sempre attive, in modo da valutare il maggior numero possibile di candidati alla ricerca di tale eccellenza. In questo caso la sfida diviene la generazione di spazi di sperimentazione e collocamento al lavoro pur in assenza di bisogni immediati.

Come avviene concretamente l’on-boarding dei neoassunti all’interno della vostra impresa? Sono previsti strumenti o percorsi specifici che vengono attivati? Con quali obiettivi?

Esistono alcuni strumenti e percorsi, con obiettivi differenziati:

  • Per tutti, prima dell’assunzione, il percorso formativo obbligatorio sulla sicurezza è integrato da interventi ulteriori volti a far meglio conoscere CAUTO (organigramma, welfare, strumenti di comunicazione, etc.); l’atto dell’assunzione è organizzato con la condivisione del contenuto di un volume creato attraverso un percorso partecipato interno, una sorta di “kit” di informazioni ed istruzioni (funzionamento, vincoli, opportunità, benefit, …); al superamento del periodo di prova viene condivisa la valutazione iniziale ed i criteri con cui, in base al ruolo, si procede con le valutazioni annuali; nel primo anno è previsto (sospeso dalla pandemia) un corso universale sul senso che CAUTO riconduce al proprio agire.
  • Per specifici ruoli, oltre a quanto sopra, l’attività di selezione iniziale può prevedere l’utilizzo del percorso “One Day in CAUTO”, che consiste nella presenza di una giornata per approfondire la conoscenza di CAUTO da parte del candidato e viceversa; l’avvio dell’attività lavorativa prevede – infine – un percorso di conoscenza approfondita (corsi di formazione e presenza fisica in alcuni spazi interni) che va da pochi giorni ad alcuni mesi.

Obiettivo di tutti i percorsi è la maggior conoscenza del contesto da parte dei neoassunti, dei limiti e delle risorse, delle attese e delle possibilità. Favorire quindi la costruzione di una griglia – iniziale – in cui sia più facile collocare quanto accade nei primi mesi di vita lavorativa.

Formazione, sostegno, accompagnamento: sono funzionali, se previsti, a un adattamento veloce alla prestazione dei lavoratori oppure agite con uno sguardo più concentrato a “far crescere”? Perché?

Sostegno, formazione e accompagnamento sono estremamente opportuni e sensati, in quanto la fornitura di strumenti di elaborazione e di comprensione e l’accompagnamento al loro utilizzo favoriscono la realizzazione delle potenzialità personali e professionali. La mera attesa della “crescita” nel tempo, una sorta di “selezione naturale” è invece l’unica possibilità quando l’impresa non ha consapevolezza del proprio funzionamento attuale ed è quindi impossibilitata a definire un indirizzo verso cui tendere e ad impostare un conseguente piano di crescita e valorizzazione del personale.

CAUTO e crescita verticale delle persone. Come siete messi in concreto? In una realtà come la vostra, che ha come ragion d’essere la costruzione di percorsi di re-inserimento al lavoro di soggetti fragili (oltre il 30% dei lavoratori CAUTO è in possesso di un certificato di svantaggio), quanto una persona da selezionare è vista come potenziale agente di cambiamento per l’impresa?

Circa il 70% dei dirigenti attuali – dal direttore generale, ai direttori d’area – dei responsabili, coordinatori e caposquadra svolge la propria funzione in virtù di un percorso di mobilità verticale interno a CAUTO; alcuni di questi hanno iniziato la loro carriera lavorativa come operatori o impiegati. Sarebbe difficile, in questa situazione, non acquisire la consapevolezza che ogni persona sarà agente di cambiamento per l’impresa. La sfida è quindi promuovere la conoscenza diffusa del contesto affinché le proposte e le azioni di cambiamento possano essere il più possibile evolutive rispetto a ciò che c’è: l’obiettivo non è trovare persone che la pensano come me, è trovare persone che, con me, pensano.

Intervista a Matteo Bottarelli

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Matteo Bottarelli ha conseguito la laurea magistrale in psicologia con particolare attenzione a un approccio clinico e di comunità rivolto all’attivazione, dal basso, di processi di coesione sociale. Ha poi seguito diversi master di specializzazione approfondendo i temi della progettazione, della formazione, della selezione, delle risorse umane, delle politiche attive del lavoro. Lavora poi nelle risorse umane prima nel profit e poi nel no profit. Si interessa di sviluppo di start up, sta curando a questo proposito un progetto che mette in dialogo giovani e professionisti.

Spesso nella selezione è più facile orientarsi rispetto a competenze tecniche già delineate e facilmente reperibili nel percorso di studio e nelle esperienze professionali pregresse dei candidati. Più difficili da valutare e interrogare sono invece le competenze più trasversali (attitudini, predisposizione, desiderio, posizionamento, possibilità di crescita) che spesso trovano poco spazio nella selezione. Quanto un’azienda è consapevole del ruolo che queste competenze possono giocare nell’arricchire il profilo ricercato?

Sulle soft-skill, sulle competenze trasversali, non so quanto l’interesse, tanto decantato, sia “ideologico” o “alla moda” o quanto siano competenze che le aziende riconoscono come elementi che interessano davvero. Sicuramente le competenze tecniche, le hard skill, sono al primo posto nella valutazione. Per il recruiter sono più facili da indagare, questo anche nel senso che rappresentano una maggiore garanzia e tutela per il selezionatore che ha “nero su bianco” quello che sta cercando. Le competenze trasversali sono più difficili da indagare. Per farlo si possono utilizzare domande mirate sulla gestione gruppo, del tempo, sull’attitudine alla leadership o sulla capacità di motivare il gruppo di lavoro. Possono anche essere indagate con colloqui o strumenti più condivisi come con la costruzione di un bilancio delle competenze partecipato. Questo richiede la strutturazione di un colloquio meno rigido, più libero, aperto, che metta il candidato a suo agio e permetta l’emersione di aspetti e competenze meno “impostate”. Detto questo, sicuramente la priorità per l’azienda rimangono le competenze tecniche. Dipende però anche dalla cultura dell’organizzazione, dalla riflessione sulla sua identità e il ruolo della ricerca del personale. Ci sono anche brand famosi che, a seguito di un turn over molto alto degli addetti alle vendite, hanno dovuto rivedere le modalità di recruiting. Il venditore doveva garantire il coinvolgimento dei clienti, la loro fidelizzazione, creare una relazione con i clienti che facesse loro percepire l’acquisto come un’esperienza piacevole. Quindi i marchi hanno dovuto orientare i recruiter a valorizzare, analizzare maggiormente le soft skills. Diverso discorso in aziende dove l’influenza delle competenze tecniche è più alta e decisiva, vedi il caso del campo informatico o di figure professionali che si occupano di data entry. La mia esperienza, ma penso possa valere anche a livello nazionale, è che il mondo delle risorse umane sia in generale poco conosciuto dalle imprese. Imprenditori e recruiter appaiono poco propensi ad assumersi dei rischi. Se volessi cambiare lavoro (dopo sei anni di esperienza nelle risorse umane) e inviassi un mio cv a imprese che si occupano di marketing sarebbe difficile poter accedere anche solo a un colloquio. Il mio Cv non sarebbe minimamente considerato. Non condivido assolutamente questa modalità. Oltretutto questo approccio diventerà, probabilmente problematico, quando le nuove generazioni entreranno a contatto con il mondo del lavoro. I millennials mostrano una forte propensione al cambiamento e a vivere esperienze diverse, alla sperimentazione. Non sono sicuro che le aziende siano oggi in grado di riconoscere o valutare questa propensione al cambiamento, allo spendersi in campi differenti, come un’occasione.

Quale ruolo pensi le imprese attribuiscano alla selezione del personale? Leggono la selezione come occasione, possibilità, che può incidere sul futuro dell’azienda e sulla sua riuscita?

Dipende un po’ dalle diverse situazioni e dai ruoli, mansioni, ricercate. In posizioni meno qualificate questo orientamento non c’è. In relazione a ruoli diversi, vedi manager, è forse più presente la richiesta di una condivisone della mission o dei valori dell’azienda. La consapevolezza da parte dell’impresa sulla propria identità gioca un ruolo forte. La consapevolezza legata alla cultura del lavoro e alla mission orienta maggiormente la ricerca di nuove figure da assumere. Nel no-profit i valori e la cultura organizzativa sono aspetti molto sentiti e radicati, quando lavoravo nel profit questo aspetto era molto meno percepito, in primis dalle imprese. Se una organizzazione ha chiare le proprie origini, la propria mission e identità ha comunque la possibilità di selezionare persone che condividano un orizzonte comune, più appartenenti, con un’identità che idealmente sia più corrispondente alla cultura dell’impresa. In realtà posso dire che da questo punto di vista ho fatto esperienza di diversi paradossi. In generale nel mondo della selezione il datore di lavoro o il responsabile della ricerca del personale tendono a non avere molta consapevolezza in relazione al ruolo che cercano, la figura è spesso poco a fuoco. Prima sarebbe necessario mettere a tema cosa, chi, si cerca effettivamente. Sarebbe necessario avere bene in mente non solo le competenze che si desiderano ma anche le caratteristiche del ruolo che si intende inserire o coprire. Invece spesso si procede per tentativi, visionando via via sempre più candidati e profili cercando di aggiustare così il tiro, in corso d’opera. Spesso chi si occupa di selezione deve anche aiutare l’impresa, durante il percorso, a capire meglio il suo bisogno. Capisci quanto questo complichi le cose anche in un’ottica di valutazione. In generale c’è poca cultura e conoscenza del mondo delle risorse umane. Non solo, c’è anche poca consapevolezza delle peculiarità delle figure, delle competenze, dei ruoli e delle mansioni non solo che si desiderano ma anche che ci sono in azienda. Spesso questo è visibile anche in situazioni che sembrerebbero più aperte al dialogo. E’ il caso di imprese che cercano figure che vengono descritte come molto poliedriche ed eclettiche. Non sempre c’è un governo di ciò che idealmente desidero, come impresa e ciò che poi può davvero funzionare. In alcuni casi si chiede al candidato una disponibilità senza una cornice chiara, condivisa, misurabile. Ancora una volta torna il problema della consapevolezza. Nel progetto di startup che ho seguito avevamo per esempio bene presente le competenze, funzioni, mentalità che stavamo cercando. Questo permette anche di bilanciare gli aspetti legati alla mentalità della persona che vorresti selezionare (in quel caso spirito manageriale, propensione al rischio, leadership) e contenuti tecnici. E’ necessario sempre trovare un equilibrio, ma questo deve essere un processo consapevole, è ad esempio possibile investire, scommettere, sulla mentalità per poi andare a potenziare le hard skill, questo però deve essere fortemente connesso al ruolo, alla mansione, al progetto che ho in testa.

La selezione è spesso legata a esigenze immediate volte a coprire un posto vacante, a rispondere a una necessità legata al presente. E’ possibile immaginarsi anche un orientamento più rivolto al futuro (del lavoratore e dell’impresa)? Quanto il tema della crescita delle risorse è presente nella selezione e richiesto dall’azienda (come sguardo non solo sull’oggi ma anche sul domani)?

L’accompagnamento è da tenere in considerazione, qualsiasi azienda dovrebbe cercare di trasmettere valori, formare, addestrare, fare crescere una risorsa e coltivarne la motivazione. In generale l’investimento sulla formazione è molto basso, tolta la formazione di base conosco poche realtà nelle quali questi aspetti sono considerati e strutturali. Ad esempio, pochissime pagano dei master o dei percorsi di formazione integrativa. La crescita professionale è più demandata al singolo, una volta che stacca del lavoro, lo fa a proprie spese, investendo su se stesso e sulla propria crescita professionale. Capisco che le aziende si tutelino dal rischio che la persona poi possa andarsene e che l’investimento fatto sia a fondo perduto, che la scommessa sia persa. Eppure c’è anche il rischio che si instauri un circolo vizioso (c’è da chiedersi quanto il potenziamento delle competenze sia un patrimonio dell’impresa, comune a impresa e lavoratori, o piuttosto sia solo personale) che porta il lavoratore ad intendere la sua crescita come elemento solo suo, per poi a giocarsi sul mercato. Senza investire sulle persone si va poco lontano, se si trattano le persone come delle pedine per coprire dei buchi non si può pensare che ci sia un investimento, come nel caso di lavoratori che vengono tenuti per molto tempo in somministrazione, non si può pensare certo che ci si possa aspettare molto di più che una pura esecuzione di un compito. Certo sono scelte che spesso si devono fare, anche per altre questioni, ma manca forse la consapevolezza degli effetti non solo sulla persona ma anche sul lavoro e sull’efficacia della resa e dello sviluppo anche interne all’impresa.

E’ possibile intendere il rapporto tra competenze trasversali e tecniche come un dialogo aperto?

Alla fine in Italia, la valutazione delle persone è ancora molto vincolata alla lettura del mero cv, si punta a valutare dati puramente oggettivi, non c’è spazio per valutare il desiderio di mettersi in gioco, la curiosità, la voglia di sperimentarsi. Questo forse dice anche qualcosa delle imprese. Una persona risulta marchiata a fuoco. Se passi sei – sette anni in un dato settore è molto difficile, se non accettando compromessi scandalosi come contrappasso, poter far cambiare direzione alla propria professionalità. Questa è sicuramente una pecca. Le nuove generazioni per le loro attitudini metteranno, in futuro, alla prova le aziende. La storia del CV non è un destino, andrebbe letta in un altro modo. Io tendenzialmente guardavo con attenzione le lettere di presentazione, è una dimostrazione di interesse e di aver pensato, essersi informati rispetto alla posizione per la quale una persona si candida. Dicono molto di una persona, i suoi interessi, i suoi valori, la sua motivazione. Ha dedicato del tempo per descriversi. E’ uno spazio di apertura. Adesso stanno prendendo spazio anche i “video CV” oppure delle video presentazioni di progettualità che accompagnano la candidatura, queste potrebbero essere delle modalità di narrazione per aiutare a conoscere meglio la persona e la sua propensione. Sempre che il mondo del lavoro acquisisca una maggiore consapevolezza.

Libri: SOFT SKILLS CHE GENERANO VALORE. Le competenze trasversali per l’industria 4.0

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Autore: Marina Pezzoli

Link: https://www.francoangeli.it/ricerca/scheda_libro.aspx?CodiceISBN=9788891757692

Perché lo proponiamo: Il sesto volume della collana Cubo Rosso entra nel mondo delle competenze soft attraverso una survey che fornisce alcune risposte su come e quanto un campione di una parte importante del tessuto produttivo italiano, il NordEst, ritiene che le competenze trasversali possano essere strategiche in un contesto di crescita e in un mondo nel pieno della quarta rivoluzione industriale

Nota: Come gli altri titoli della collana, anche questo volume sintetizza apporti provenienti da persone con professionalità diverse, nella convinzione che le diverse prospettive generano un valore superiore a quello del singolo individuo o organizzazione

Articoli: IL SENSO DELLE AZIENDE PER LE SOFT SKILLS E PERCHÉ VALORIZZARLE È VITALE

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Autore: Enrico Verga

Link: https://www.econopoly.ilsole24ore.com/2019/11/18/soft-skills-aziende/

Perché lo proponiamo: Tratta di come tracciare le soft skills, mapparle e, in ultima istanza, usarle a vantaggio dell’individuo e dell’azienda; lo fa grazie al contributo di vari imprenditori o manager attivi in ambito pubblico e privato

Nota: Articolo del Il Sole 24 Ore

Articoli: THE IMPORTANCE OF SOFT SKILLS THE IMPORTANCE OF SOFT SKILLS IN THE JOB MARKET

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Autore: Michele Lecis, Gabrielle Fournet, Hélène Cottin, Pierre Buirel, Catalin Ciobanu

Link: https://boost.rs/wp-content/uploads/2020/11/BOOSTRS_SOFT_SKILLS_STUDY_2020.pdf

Perché lo proponiamo: Perché analizza oltre 850.000 annunci di lavoro redatti dalle imprese e fotografa il posizionamento delle competenze soft all’interno di tali annunci, focalizzandosi poi su quelle più diffusamente richieste

Nota: Fornisce un’utile sistematizzazione delle competenze soft, definendole e suddividendole in personali ed interpersonali

Articoli: IS IT BETTER TO INVEST IN HARD OR SOFT SKILLS?

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Autore: Jiří Balcar

Link: https://www.researchgate.net/publication/309541805_Is_it_better_to_invest_in_hard_or_soft_skills

Perché lo proponiamo: Perché da un lato fornisce una serie di evidenze scientifiche sull’incidenza che le soft skills hanno sulle performance lavorative, ponendole alla medesima importanza di quelle hard e, dall’altro, fotografa uno squilibrio nell’investimento del mondo scolastico e lavorativo a favore delle competenze hard

Nota: Articolo pubblicato sulla rivista The Economic and Labour Relations Review

Articoli: IL COLLOCAMENTO MIRATO E LE CONVENZIONI EX-ART.14 – Evidenze e riflessioni

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Autore: Quaderno a cura di Fondazione Cariplo

Link: https://www.fondazionecariplo.it/static/upload/il-/il-collocamento-mirato-quaderno-30-low.pdf

Perché lo proponiamo: Fondazione Cariplo presenta un articolato studio sul collocamento mirato di persone fragili: dal quadro normativo alle esperienze di successo, dai dati nazionali alle opinioni delle persone coinvolte. Cariplo raccoglie qui l’esito di esperienze che la Fondazione ha sperimentato e sostenuto, in collaborazione con diversi attori del territorio, alcuni modelli di intervento per promuovere l’occupabilità di persone a rischio di marginalità che, nel contesto socio-economico attuale e in un mercato del lavoro sempre più dinamico e in evoluzione, non sempre trovano risposte adeguate

Nota: il Quaderno nasce dall’esperienza di un bando (Abili al lavoro) 

Poesie: SCRIVERE IL CURRICULUM

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Autore: Wilsawa Szymborska

Link: https://www.doppiozero.com/materiali/curriculum

Perchè la proponiamo: ve la proponiamo perchè la mano e lo sguardo umanissimo della Szymborska si posa sul mondo della selezione del personale e ne coglie la durezza impersonale.

A prescindere da quanto si è vissuto

il curriculum dovrebbe essere breve.

È d’obbligo concisione e selezione dei fatti.

Cambiare paesaggi in indirizzi

e ricordi incerti in date fisse.

Di tutti gli amori basta quello coniugale,

e dei bambini solo quelli nati.

Conta di più chi ti conosce di chi conosci tu.

Nota: Il link che vi abbiamo proposto contiene un ampio commento alla poesia della testata on line Doppiozero

Film: RICOMINCIO DA ME

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Regista: Peter Segal (2018)

Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=Gd3AAbsQ42s

Il film in sintesi: 

Il film è una commedia sentimentale che segue la storia di Maya Vargas (Jennifer Lopez), quarantenne intelligente ed esperta nel suo lavoro ma il fatto che non abbia una laurea e che non sia più giovanissima le impedisce di avere la promozione che le spetta. Un giorno viene inaspettatamente chiamata da una prestigiosa azienda di Manhattan che visto il suo ottimo curriculum ha pensato di offrirle una posizione di alto livello. Maya scopre così che i suoi amici, per aiutarla a dare una svolta alla sua vita, hanno creato un profilo sui social dove lei risulta laureata, parla perfettamente cinese ed è addirittura amica di Obama. Inizialmente frastornata dall’enorme bugia che ha preso forma, deciderà poi comunque di sfruttare l’occasione per dimostrare quanto vale e quanto siano più importanti la determinazione e il talento, piuttosto che i titoli di studio. Ben presto però si troverà a fare i conti in bilico tra la sfida e le competenze. Vi presentiamo anche un articolo di una società di formazione che collega molto bene il tema al ruolo che l’azienda avrebbe potuto avere per ‘dare una svolta’ alla situazione accompagnando le competenze della protaginista: lo trovate qui https://www.gruppolen.it/ricomincio-da-me/

Perché lo proponiamo: ve lo proponiamo perché affronta con sguardo leggero il tema delle competenze e della loro evoluzione sia dal punto di vista dell’azienda che del lavoratore

Film: IO, DANIEL BLAKE

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Regista: Ken Loach (2016)

Trailer: https://youtu.be/gEs-mHH9JTA

Il film in sintesi: Daniel Blake, falegname sessantenne di New Castle è malato di cuore e il suo medico gli ha prescritto un periodo di riposo e di astensione dal lavoro. Di parere diverso è l’agenzia che valuta l’idoneità al lavoro e che costringe Daniel Blake a intraprendere un percorso di ricerca di un nuovo lavoro che si rivela un vero e proprio incubo, fatto di vessazioni e sanzioni ogni qual volta non si seguono alla lettera le prescrizioni imposte dall’agenzia (popolata di soggetti privi di qualsiasi comprensione e compassione). Il film segue le vicende di Daniel tra burocrazia e solidarietà, fino ad un epilogo che non sveliamo… ma ricordate che è un film di Loach.  Qui una descrizione più dettagliata: http://www.euronomade.info/?p=8207  e un interessante critica di Goffredo Fofi https://www.internazionale.it/opinione/goffredo-fofi/2016/10/24/io-daniel-blake-ken-loach-recensione

Perché lo proponiamo: lo abbiamo scelto perchè contrappone logiche aziendali tutte orientate al profitto allo spirito solidale che lega Daniel all’umanità ai margini a cui si trova ad appartenere, e non risparmia una durissima critica al welfare piegato a logiche di mercato

Nota:il film ha vinto la Palma d’Oro a Cannes nel 2016

Come tu mi vuoi

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Formare per la libertà o formare per il lavoro?

E’ la domanda che apre questa nuova trilogia de Leproposte che parte da una riflessione sulla scuola per riflettere poi in modo più complessivo di formazione e transizione al lavoro.

Presentiamo due esperienze italiane che esplorano questo bivio.

La prima esperienza che raccontiamo è un liceo pubblico premiata per il suo eccellente lavoro sulle conoscenze degli studenti: un’esperienza in cui la qualità formativa è data da un mix tra ingaggio motivazionale dei docenti, organizzazione chiara del lavoro, e autoselezione di studenti molto interessati allo studio e all’impegno. La formazione in questo contesto ha come obiettivo la preparazione al percorso universitario e poi al lavoro premiando conoscenze, merito e impegno.

La seconda esperienza è invece una scuola primaria parentale comunitaria nata dall’attivazione diretta di un gruppo di genitori che hanno fortemente voluto una scuola capace di dare agli studenti lo spazio, il tempo e l’opportunità di coltivare il proprio desiderio di imparare: una scuola che mette al centro la persona, l’incontro con l’altro e la comunità locale come contesto di apprendimento, e che accompagna gli studenti nell’esplorazione del mondo che è un modo anche per esplorare sé stessi

C’è un’obiezione facile che possiamo anticiparci: certo, nella scuola primaria ci si può occupare della crescita educativa dei bambini, ma al liceo ci sono obiettivi ed esigenze diverse, con obiettivi cognitivi importanti. Alle superiori, si deve lavorare sui contenuti.

A questa obiezione risponde il nostro testimonial che questa volta non è una persona, ma un intero modello formativo: quello della scuola pubblica finlandese, che non conosce materie, voti, meritocrazia. Un’altra formazione è possibile.

Ripartiamo da loro

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“L’unica cosa che la scuola dovrebbe fare -cantava Eugenio Finardi molti anni fa – è insegnare a imparare”.  E’ quello che succede nella scuola parentale di Brunate (Co) nata dalla scelta pedagogica forte e dichiarata di un gruppo di genitori che volevano offrire (non solo ai propri figli, ma a tutta la comunità) uno spazio in cui crescere liberi di esplorare il mondo secondo le proprie inclinazioni, e liberi e di imparare da questa esplorazione.

A Brunate la scuola è un’avventura che ha il mondo per scenario e i bambini come protagonisti: agli adulti, agli insegnanti spetta il compito difficile e sfidante di condurli sulle strade inedite della scoperta di sé e della realtà, imparando dalle proprie riflessioni e dalle proprie scoperte, dai propri errori e dal confronto con gli altri.

Ce ne parla Alessandra Ballerini, tra le fondatrici della scuola: “L’insegnante, l’educatrice. l’educatore devono utilizzare differenti linguaggi, partendo dall’osservazione dei singoli bambini e trovando quale modalità sia più affine al singolo bambino che ha di fronte. E’ da questa considerazione che nasce la scelta delle modalità con cui relazionarsi con quel bambino e l’individuazione del terreno dal quale iniziare il viaggio dell’apprendimento, creando una relazione salda. Questo non vuol dire che ci accontentiamo di un’unica modalità: man mano che la relazione tra educatore e bambino si consolida, si possono esplorare altre modalità coinvolgendo i bambini nella costruzione del loro sapere. E’ un processo che educatori e studenti fanno crescere insieme, e che non viene imposto da parte dell’insegnante. Tendenzialmente in una scuola statale viene insegnato un unico metodo di studio: per noi invece è importante capire che è possibile arrivare allo stesso risultato passando da strade differenti, e non è detto che una sia migliore dell’altra.“(qui l’intervista completa)

Se la scuola è palestra di vita, allora la vita che si impara qui è un viaggio in cui ciascuno ha una propria vocazione da realizzare, un proprio modo di essere unico che ciascuno ha il compito di conoscere e far crescere in armonia con ciò che lo circonda.

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