Pronti al traguardo

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La scuola è palestra di vita, e la vita è preparazione, impegno e spesso competizione per raggiungere i propri obiettivi. 

Il mondo del lavoro questo chiede ai giovani: adattarsi ad un percorso spesso tortuoso e competitivo per trovare una propria collocazione, ed impegnarsi duramente per mantenerla in un contesto instabile e conflittuale dove è premiato chi è più determinato, più esperto, più adattabile degli altri alle esigenze di un mercato del lavoro sempre in tensione.

Se è così, allora il miglior servizio che la scuola possa offrire agli studenti è un solido bagaglio formativo ed una attitudine personale capace di misurarsi con una sfida ambiziosa. Lo fa al meglio il liceo Nervi Ferrari di Morbegno (So): una scuola premiata per 4 anni consecutivi come miglior liceo d’Italia dalla Fondazione Agnelli.  

“Io vengo dalla direzione di istituti comprensivi -afferma Elisa Gusmeroli, preside del liceo-  in cui si dedicava molta attenzione alle competenze dei ragazzi, sul loro modo di lavorare. Nelle scuole superiori, però, ci si misura con lo sbocco lavorativo e universitario, e questo i docenti lo hanno molto presente: non si può prescindere da una consolidata capacità di conoscenza che deve essere fruibile per gli studenti. Per noi è importante che i ragazzi che fanno i test di ammissione universitaria in quarta riescano a passarli, così come proponiamo come attività extracurricolare un corso che li porta ad ottenere una certificazione di competenza nella lingua inglese di buon livello, e i ragazzi sono consapevoli che questo li faciliterà all’università.” (qui l’intervista completa)

La scuola è palestra di vita. Dura.

 

Testimonial: La scuola finlandese

La scuola che vorremmo assomiglia molto a quella del sistema finlandese. 

Non perché conosciuta e stimata a livello globale per gli alti risultati raggiunti dagli studenti, esito sicuramente importante, ma per il sistema collaborativo di apprendimento che mette in atto. 

Siamo, qui, ben lontani dagli estremismi della didattica compulsiva di altri sistemi basati sugli stereotipi dell’eccellenza, che sembrano dilagare, di questi tempi, in nome della complessità che ogni giorno viviamo. 

Da un altro punto di vista, è proprio l’accettazione della complessità alla base del metodo applicato dalla scuola finlandese. 

Sì, metodo: perché a differenza di altri sistemi scolastici basati sui programmi didattici – che poi altro non sono che lunghe liste di contenuti da imparare, trasferire ai ragazzi – in Finlandia si parte sempre dal metodo. Non dalla libera interpretazione o ispirazione del singolo docente. 

Un metodo collettivo che diventa visione comune per leggere e accompagnare i processi educativi e di apprendimento dalla scuola primaria fino alle superiori. 

Un metodo che ha un nome: apprendimento per fenomeni o per progetti (project or phenomenon based learning).
Si insegna a darsi degli obiettivi di apprendimento e a leggere in maniera sistemica fenomeni e fatti quotidiani. Progetti e fatti diventano così i due punti di vista, punti di partenza per la definizione dei programmi didattici.

Certo, non basta solo avere metodo. Il sistema finlandese mette in evidenza altre dimensioni imprescindibili per l’efficacia di un sistema educativo: le relazioni educative, esplicitate nel riconoscimento dei ruoli e delle competenze delle diverse figure (insegnanti, genitori, alunni) e il contesto di apprendimento, inteso concretamente come spazio fisico adeguato, capace di andare oltre ai classici banchi di scuola.

 

Partiamo dalle relazioni. L’attenzione è sia verso i numeri, sia verso le competenze degli insegnanti. 

I poli didattici non superano i 400 alunni a Dirigente scolastico, visto come un coordinatore non solo “amministrativo”, ma un facilitatore esperto di processi educativi che si prende cura delle relazioni tra famiglie e scuola. 

Un corpo insegnante non solo preparato a livello di conoscenze adattabili a un sistema interdisciplinare, ma testato in un percorso pre-insegnamento di ruolo, sulla capacità relazionale e di adeguatezza al ruolo. 

 

Se, poi, guardiamo al contesto di apprendimento, coniugato in cura e struttura dei luoghi, troviamo una scuola ergonomica, che sa interpretare sia il suo mandato originario, trasferire conoscenze, sia essere cassa di risonanza di competenze e abilità necessarie ad apprendere in un mondo complesso e in continuo cambiamento. Classi con banchi mobili, molto prima dei nostri banchi con le rotelle, laboratori sia per competenze musicali e/o tecnologiche, ma anche spazi per il gioco e/o per il relax. 

 

Dal 2016 è diventato centrale e normato nel rapporto tra scuola e famiglie il concetto di cooperazione interpretato in quattro linee di intervento: cooperazione nei valori, cooperazione come meeting-point culturale, cooperazione come allenamento al futuro, cooperazione come forma di supporto reciproco.

Per questi aspetti, diversi eppure così connessi, crediamo che il sistema finlandese possa essere di spunto sia per i nostri sistemi educativi sia un contributo importante nel definire nuovi orizzonti del cooperare.  Declina processi educativi che si basano sul cercare di dare risposte a questioni concrete, valorizza conoscenze interdisciplinari e attiva un mix di competenze tecniche e relazionali, credendo nella necessità di contesti e spazi adeguati dove far generare nuovi apprendimenti.

Intervista a Elisa Gusmeroli

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Elisa Gusmeroli è la preside del liceo pubblico Nervi Ferrari di Morbegno (So) che da quattro anni si guadagna il titolo di miglior scuola superiore d’Italia secondo la Fondazione Agnelli: una classifica nazionale basata sulle votazione d’esame ottenuta dagli studenti nel loro primo anno di università.

Ci concede un’intervista con una disponibilità e una immediatezza che stupisce se pensiamo alle rigidità e ai formalismi che spesso contraddistinguono la pubblica amministrazione del nostro paese.

Lei ha tutto un altro ritmo, e il colloquio entra subito nel vivo del confronto su un modello formativo che a Morbegno premia la capacità di acquisire competenze.

Preside, come spiega il risultato eccellente della sua scuola? Qual è la ricetta del vostro successo?

E’ una ricetta fatta di tanti ingredienti che quest’anno ci ha portato ad ottenere il riconoscimento di migliore scuola d’Italia a parimerito con due indirizzi: sia lo scientifico tradizionale che il liceo di scienze applicate.  Un primo elemento essenziale sono i ragazzi: la nostra scuola ha un’utenza che si autoseleziona: qui si lavora sodo, e gli studenti che si iscrivono lo sanno e sono molto motivati. L’altro fattore di successo è legato al contesto. Siamo una scuola relativamente piccola in un contesto di provincia. Non è la scuola in sé che ha un’offerta particolare: certo, abbiamo il laboratorio di informatica o di scienze, ma la nostra è una scuola ‘normale’. Il giornalista del Corriere della Sera che è venuto ad intervistarci l’anno scorso si è quasi stupito notando che ‘l’edificio non è all’altezza della nostra fama’. Quello che funziona è una miscela di fattori. 

Io sono preside in questa scuola solo da un paio di anni, sono arrivata nel settembre 2019 e a marzo eravamo già alle prese con i problemi del lockdown. In questa situazione, e in generale per la nostra scuola, gli insegnanti sono una risorsa importantissima: durante il lockdown ad esempio il loro pragmatismo è stato fondamentale per la continuità didattica. Appena possibile ci siamo messi tutti in didattica a distanza, ci siamo adattati alle nuove regole e i ragazzi non hanno perso ore di lezione: questo per noi è stato importante. Con i docenti abbiamo definito subito regole chiare, scritte e comunicate a tutti con grande chiarezza. Già il 20 di marzo 2020 abbiamo fatto un Collegio Docenti in cui abbiamo deciso come gestire la DAD: abbiamo discusso di strumenti ma anche stabilito regole che per me, che per ruolo sono una preside molto valutativa, erano essenziali: abbiamo ad esempio stabilito il numero delle verifiche da fare a distanza, le modalità possibili per il recupero delle insufficienze… E’ importante questo sistema di regole perché i ragazzi dovevano sapere da subito come avrebbero lavorato, e tutti dovevano sapere di avere le stesse opportunità. Questo ci ha portato con soddisfazione alla fine dell’anno a dire che i docenti avevano svolto il programma senza grossi bisogni di recupero a settembre. Ci aiuta l’essere sempre aperti al nuovo, dando valore alle competenze certo ma anche alle conoscenze disciplinari che qui sono sempre la cosa più importante perché conoscenze e competenze non sono mai disgiunte. 

Conoscenze e competenze: approfondiamo questo aspetto.

Io vengo dalla direzione di istituti comprensivi (scuole primarie e secondarie di primo grado) in cui si dedicava molta attenzione alle competenze dei ragazzi, sul loro modo di lavorare. Nelle scuole superiori, però, ci si misura con lo sbocco lavorativo e universitario, e questo i docenti lo hanno molto presente: non si può prescindere da una consolidata capacità di conoscenza che deve essere fruibile per gli studenti. Per noi è importante che i ragazzi che fanno i test di ammissione universitaria in quarta riescano a passarli, così come proponiamo come attività extracurricolare un corso che li porta ad ottenere una certificazione di competenza nella lingua inglese di buon livello, e i ragazzi sono consapevoli che questo li faciliterà all’università.

Nella nostra scuola i ragazzi affrontano un importante cambiamento di metodo di studio. I ragazzi che arrivano da noi hanno spesso un buon bagaglio formativo e motivazionale, eppure capita che abbiano difficoltà nei primi anni: l’acquisizione del metodo di studio per noi è un lavoro importante che si si costruisce in 5 anni e chi lo acquisisce ha poi un appiglio una solido nell’affrontare l’università. 

Cerchiamo di dare ai ragazzi anche un sostegno motivazionale e psicologico che, in questo momento caratterizzato dalle chiusure Covid, ha una particolare importanza perchè questo anno ha messo i ragazzi a dura prova.

Ci sono modalità premiali che attivate per sostenere le competenze?

Noi li sosteniamo molto con le attività extracurricolari che abbiamo proposto anche in didattica a distanza: dal corso di spagnolo al teatro. Abbiamo persino proposto, in collaborazione con il Comune e una cooperativa, un corso on line per baby sitter e i ragazzi hanno aderito con entusiasmo anche a questo. L’anno precedente invece abbiamo proposto anche viaggi e scambi con l’estero per piccoli gruppi di ragazzi. 

I ragazzi del liceo artistico poi sono impegnati anche in compiti con l’esterno, ad esempio realizzando pannelli decorativi per spazi pubblici, fanno da cicerone per il Fai,… e sono anche previste borse di studio con l’Ufficio Scolastico Provinciale.

Quali sono gli spazi per la partecipazione delle famiglie e dei ragazzi?

Quest’anno la distanza ha inciso molto: abbiamo fatto poche riunioni e pochi Consigli di Istituto in cui ci sono anche i delegati dei genitori. Quest’anno li sento principalmente se ci sono problemi, difficoltà o cose non vanno. Per la costruzione di collaborazione in questi due anni abbiamo fatto poco.

Di recente ho avuto un confronto con i ragazzi che stanno organizzando l’Assemblea di Istituto: hanno proposto come tema ‘la musica’, e io mi sono sentita di entrare forse troppo a gamba tesa facendo notare che in questo momento ci sarebbero temi ben più rilevanti da affrontare. Mi è parso poi che per loro fosse importante in questo momento staccarsi da un contesto molto pesante, e quindi svilupperanno l’Assemblea secondo i loro interessi.

Certo sono legami che, in presenza, andranno ripresi, oltre alle molte comunicazioni che scritte che ci siamo scambiati.

Abbiamo parlato di alunni, genitori e territorio. Che caratteristiche ha il corpo docente della scuola?

Come già accennato, i docenti sono una risorsa centrale per la scuola. Per questo motivo le cattedre sono trasversali tra i diversi indirizzi, e non legate solo ad esempio al liceo artistico o al liceo linguistico, al netto ovviamente delle materie specifiche: questa scelta di trasversalità -fatta da chi mi ha preceduto- si è rivelata molto efficace per dare una struttura più simile ai diversi corsi e anche per fare in modo che tutte le classi abbiano almeno una quota di docenti di ruolo stabilmente presenti. Noi abbiamo molti docenti di ruolo, con un’età media alta (come accade in generale -per tate ragioni- nel pubblico impiego). Abbiamo anche alcuni docenti con cattedre annuali che però spesso scelgono di tornare. Per un docente è motivante lavorare con ragazzi che hanno voglia di studiare, e poi non ci sono problemi disciplinari… ci sono anni in cui non abbiamo nemmeno un problema su questo aspetto. Abbiamo una percentuale molto bassa di studenti stranieri o con difficoltà particolari: parliamo di una media di poco più di un ragazzo per classe, e per lo più nati in Italia. Quest’anno ad esempio abbiamo avuto solo tre studenti che hanno avuto bisogno del corso di italiano che hanno sia un insegnante che li segue sia un corso specifico pomeridiano.

A volte per un insegnante questo è già sufficiente. Qualche giorno fa ho incontrato i ragazzi dell’artistico er ricordare che devono applicare con attenzione le norme Covid, facendo presente che in questo momento delicato loro devono comportarsi con l’attenzione e la disciplina di bravi soldatini, e so che lo faranno. Con gli studenti del liceo scientifico non ho nemmeno avuto bisogno di fare questo passaggio: lo sanno anche da soli, sono molto ligi.

Certo magari i docenti si lamentano perché i ragazzi si connettono con 5 minuti di ritardo, o vogliono tenere la webcam spenta: questi problemi li abbiamo anche noi, ma le classi anche in remoto sono gestibilissime.

Quali sono i progetti di innovazione su cui state lavorando?

Abbiamo rinnovato l’aula informatica e oggi siamo sede per la certificazione di competenze digitali per la scuola ma anche per il territorio che può frequentare i nostri corsi. Abbiamo inoltre ottenuto quest’anno l’accreditamento Erasmus che ci consente di contattare direttamente altre scuole che aderiscono al programma e organizzeremo scambi per piccoli gruppi di studenti, ma anche di docenti che se lo desiderano potranno partecipare, e potremo inoltre accogliere un ragazzo madrelingua la cui presenza in aula migliorerà l’offerta didattica del nostro liceo linguistico. Avrei voluto dare al liceo linguistico una impronta più europea aggiungendo ore curricolari di economia e diritto: attualmente questo non è possibile nelle scuole pubbliche e quindi cerchiamo di innovare la nostra proposta aprendoci di più agli scambi.

 

Intervista a Alessandra Ballerini

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Alessandra Ballerini è counselor, insegnante di yoga, mamma di quattro figli e professionista nelle relazioni d’aiuto. Da diversi anni ha avviato, insieme ad altre famiglie e un’insegnante, una scuola parentale in provincia di Como. La sua esperienza professionale e di vita l’ha portata a maturare uno sguardo olistico rispetto all’istruzione, valorizzando le reciproche influenze tra corpo, mente e spirito.

Come ha maturato l’idea o il desiderio di cimentarsi nella progettazione di una scuola parentale?

La mia esperienza mi ha portata a capire che ciò che davvero importa nell’istruzione molte volte non è riscontrabile nelle scuole esistenti. Non è sempre così: conosco realtà virtuose e non è corretto dire che tutto va male. Del resto esistono anche molti cliché sulle scuole parentali: molti pensano che siano scuole che non rispettano le regole, che si isolano… Nella nostra scuola crediamo che le regole esistano e vadano rispettate, e crediamo che sia molto importante relazionarsi anche con gli istituti comprensivi del territorio. perché questi due tipi di scuole, la nostra e quella pubblica, sono due visioni diverse che rispondono a bisogni diversi delle famiglie, ma possono coesistere. Alla fine, è il professore, l’insegnante, che fa la differenza. Un istituto comprensivo può avere un ottimo dirigente, virtuoso, che sostiene degli ottimi valori e delle modalità all’avanguardia, innovative ma poi è l’insegnante che è a contatto quotidianamente con i bambini, e se non condivide questi valori tutto l’impianto rischia di perdersi. L’idea di aprire una scuola parentale nasce dal riconoscimento di quanto sia importante l’impostazione di un metodo e di una prospettiva didattica condivisa da tutti e agisca sui processi di apprendimento dei singoli e del gruppo classe.

All’origine della nostra scelta c’è stata un’esperienza negativa vissuta all’interno della scuola statale dalla figlia di uno dei genitori del gruppo: esperienza che l’ha messa in difficoltà anche da un punto di vista psicologico con importanti ripercussioni sulla sua vita scolastica. Per poterla aiutare a ricostruire quello che era andato in frantumi abbiamo cercato un contesto che potesse sostenerla, e abbiamo così conosciuto una scuola parentale del territorio che la bambina ha frequentato per un anno e mezzo, periodo in cui ci siamo coinvolti attivamente nell’organizzazione della scuola. In questo tempo, grazie al confronto con un ente già strutturato, abbiamo maturato la consapevolezza che potevamo aspirare a costruire qualcosa che corrispondesse ancora di più ai nostri valori e alle nostre attese condividendo questo progetto con altre famiglie e soprattutto con un insegnante perché -come dicevo prima- è l’insegnante che trasmette ai bambini esperienze significative e li introduce alla condivisione di saperi.

I metodi e le modalità di insegnamento sono una parte fondamentale del processo di apprendimento ma alla base di tutto ci deve essere uno sguardo educativo e un’intenzione capaci di osservare e tenere insieme le diverse dimensioni che intervengo nel formare la persona, cogliendo come i bambini comunicano, come si muovono in un contesto, come i genitori si relazionano con loro. In questo senso educare significa in primo luogo aiutare a sviluppare le singole potenzialità di ciascuno fornendo al contempo gli strumenti perché una persona possa esprimersi e realizzarsi, in futuro, per come è. E’ una sfida pazzesca che costringe l’educatore a una costante instabilità. Non si basa su certezze, regole da applicare o risposte preconfezionate perché l’insegnate deve considerare il bambino, la persona che ha davanti, nella sua complessità e unicità. Anche per questo crediamo che sia necessario che gli educatori debbano lavorare molto su sé stessi, toccando le paure che provano e interrogando le esperienze che vivono e il ruolo che hanno, per loro e per i bambini.

Questo nella pratica quotidiana, nel gruppo classe che declinazione trova?

Per poter operare con questa modalità i gruppi classe devono essere piccoli: in una scuola statale o paritaria, dove i gruppi classe sono molto grandi, comprendo che sia assolutamente impossibile per un insegnante lavorare in questo modo. Non è colpa dell’insegnante: è proprio che non ci sono le condizioni possibili. Noi abbiamo classi di otto bambini: lo so, sono pochissimi! Questo però consente di dare a ciascun bambino stimoli diversi. L’insegnante, l’educatrice. l’educatore devono utilizzare differenti linguaggi, partendo dall’osservazione dei singoli bambini e trovando quale modalità sia più affine al singolo bambino che ha di fronte. E’ da questa considerazione che nasce la scelta delle modalità con cui relazionarsi con quel bambino e l’individuazione del terreno dal quale iniziare il viaggio dell’apprendimento, creando una relazione salda. Questo non vuol dire che ci accontentiamo di un’unica modalità: man mano che la relazione tra educatore e bambino si consolida, si possono esplorare altre modalità coinvolgendo i bambini nella costruzione del loro sapere. E’ un processo che educatori e studenti fanno crescere insieme, e che non viene imposto da parte dell’insegnante. Tendenzialmente in una scuola statale viene insegnato un unico metodo di studio: per noi invece è importante capire che è possibile arrivare allo stesso risultato passando da strade differenti, e non è detto che una sia migliore dell’altra.

All’interno del gruppo classe come interagiscono i bambini? Ci sono attività che prevedono approcci simili a quelli della peer education, attività di gruppo?

Assolutamente sì. Ogni settimana viene affidata a questi bambini, a casa, una missione, un compito. I bambini -come fossero degli esploratori- devono capire come reperire le informazioni e gli strumenti necessari. Noi non usiamo libri di testo: una volta alla settimana andiamo in biblioteca e cerchiamo di restituire ai bimbi il piacere di coltivare più punti di vista. E’ molto forte per noi l’idea che non sia l’insegnante a consegnare all’alunno un sapere già predefinito. In questo modo, anche in funzione delle età dei bimbi, avremo risposte differenti, e non importa se la risposta che loro danno è giusta o sbagliata: hanno ragionato e nel loro ragionamento è comunque vero quello che ci restituiscono. Crediamo che sia importante apprendere facendo esperienza, come rilevano le neuroscienze: imparo vivendo esperienze significative e caratterizzate da un’emozione positiva, ciò che ho appreso resterà fissato nella mia memoria perché l’ho vissuto. Tornando al concetto delle missioni ogni singolo bambino ha un’esplorazione differente da compiere, ma il tutto poi viene ricondotto all’interno del gruppo. Faccio un esempio: se a un bambino viene chiesto di lavorare su un apparato circolatorio, osservando, facendo degli esperimenti o utilizzando delle schede o delle tabelle poi riporterà al gruppo quanto ha imparato confrontandosi con gli altri. Accade poi magari che la stessa missione venga affidata a due o più bambini, magari con attitudini, sguardi, linguaggi differenti. Inevitabilmente arriveranno in classe con lo stesso tema visto da due angolazioni completamente differenti e da questa molteplicità scaturisce una visione più ampia e anche la possibilità di un confronto, di una relazione. In questo modo i bambini non vivono un rapporto con l’altro segnato dalla competizione, dall’ansia di copiare l’altro o di difendere ciò che ritengono di loro proprietà, ma iniziano a cooperare e a fare esperienza di come si lavora insieme perché insieme arrivano più lontano. Non è facile, ma pian piano, facendone palestra fin da piccoli, si arriva in quinta elementare a lavorare e ad approcciarsi a questa modalità (che non è molto differente da quelle utilizzate nel team building), riuscendo a valorizzare i diversi apporti.

Spesso un tema vissuto con fatica nelle scuole è il confronto con competenze differenti o diverse fragilità

Quest’anno abbiamo avuto all’interno del gruppo classe una bambina con la sindrome di Down: a detta della sua famiglia non è mai stata così serena e non si è mai sentita così appartenente ad un gruppo come quest’anno. Non è stata fatta nessuna lezione agli altri bambini, nessun discorso del tipo “guardate che è una bambina fragile “ e così via. Per noi non era necessario perché il nostro approccio cerca di valorizzare ogni bambino. Ognuno ha potenzialità differenti e questa è la chiave per evitare che la competizione porti i bambini a non sentirsi riconosciuti.

Prima parlava delle “missioni” svolte anche al di fuori del contesto scuola: mi sembra che proponiate un approccio molto sensibile all’esterno, al territorio

Una mattina alla settimana i bambini vanno in biblioteca: la vivono proprio come se fosse per loro una seconda aula. E’ un’esperienza che coinvolge direttamente la bibliotecaria che ogni giovedì legge loro un nuovo racconto, parla dei nuovi libri che ha acquistato, e magari li ha acquistati partendo dagli interessi manifestati direttamente dai bambini. Essere collegati al territorio, avere dei punti di riferimento sani all’interno della comunità, favorisce l’idea, nei bambini ma non solo, che i bambini sono cittadini e che possono esserne protagonisti. Non devono aver paura o temere gli altri interlocutori, gli adulti, le istituzioni: sono risorse con le quali dialogare e vivere esperienze anche legate alla vita quotidiana. I bambini una volta a settimana vanno anche a fare la spesa nel paese perché così continuano a conoscere il territorio e applicano anche le conoscenze che hanno appreso (il pensiero matematico, il pensiero logico). Se devo cucinare una ricetta per 10 persone partendo da una ricetta base per quattro, dovrò considerare i prodotti che mi servono, le quantità e anche quanto mi costerà. I bambini hanno in mano il portafogli e iniziano a confrontarsi con la realtà perché imparare, costruirsi, andare a scuola non devono essere astrazioni: se non ho vissuto un’esperienza e provato l’emozione positiva che questa veicola, di quei concetti mi dimenticherò presto.

Le competenze che nominava come hanno influito nella crescita dei bambini, come si sono trovati nel passaggio nelle classi successive e in altre scuole, com’è stato il loro adattamento?

In questo momento i bambini più grandi sono in quinta elementare quindi il passaggio ancora non l’abbiamo vissuto. Stiamo cercando di organizzare anche una scuola media parentale perché si possa andare avanti a lavorare in questo modo, valorizzando un apprendimento basato sull’apertura e la curiosità. Dovessero entrare poi in una scuola statale o paritaria, insomma in contesti più canonici, questi bambini, almeno che non incontrino professori che amano accogliere la curiosità da parte degli alunni, potrebbero vivere un certo disagio nel non sentirsi più ascoltati. Per noi ogni cosa che il bambino ha da proporre o da dire (ovviamente non in ogni secondo della giornata!) è importante. Cerchiamo di dedicare ampi spazi nei quali i bambini possano esprimersi. La preoccupazione è che possa venir meno la possibilità per loro di essere riconosciuti per quello che vivono e desiderano e per ciò che per loro è importante comunicare a insegnanti e genitori; il rischio è che possa mancare uno spazio aperto alla manifestazione e all’espressione di un desiderio rispetto all’apprendimento, all’espressione della propria curiosità. I nostri bambini sono abituati a costruire il loro sapere, il loro modo di conoscere, non a leggerlo da un unico testo. Gli viene spontaneo dire “ok questo testo dice questo, ma un altro libro cosa dice al riguardo?” E’ vero che questa possibilità c’è anche a casa, ci sono tutti i pomeriggi disponibili, ma io, bambino, troverò il professore che avrà voglia di ascoltare quello che, come esploratore, ho trovato?

Questa mi sembra una domanda molto bella sull’insegnamento, la scuola e non solo. Sarebbe una chiusura perfetta, quanto meno per questa intervista. In realtà, forse, è piuttosto una domanda che vale la pena lasciare aperta.

Libri: L’APPELLO

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Autore: Alessandro D’Avenia

Pubblicato da Mondadori (2020)

Link: qui una recensione con molti commenti anche di insegnanti ed una ricca rassegna stampa: https://www.profduepuntozero.it/libri/lappello/

Perché lo proponiamo: E se l’appello non fosse un semplice elenco? Se pronunciare un nome significasse far esistere un po’ di più chi lo porta? Allora la risposta “presente!” conterrebbe il segreto per un’adesione coraggiosa alla vita. Questa è la scuola che Omero Romeo -insegnante cieco- sogna affrontando una classe difficile, capace lui solo, non vedente, di vedere veramente i suoi studenti.

Documenti ed esperienze

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Proponiamo qui una ricca selezione di documenti istituzionali ed esperienze di formazione italiana che definiscono cornici di senso e di metodo, offrono spunti, raccontano di progetti concreti. Dai quali possiamo lasciarci ispirare, con i quali possiamo confrontarci ma che, di certo, non ci lasciano indifferenti. 

 

# Argomento Link Perché l’abbiamo scelto
1 Flipped classroom- classe capovolta https://www.soloformazione.it/blog/didattica-capovolta-o-flipped-learning-cos-e-e-come-funziona Approccio metodologico che ribalta il tradizionale ciclo di apprendimento fatto di lezione frontale, studio individuale a casa e verifiche in classe.
2 Lo storytelling nella scuola https://www.orizzontescuola.it/limportanza-dello-storytelling-nella-scuola-e-nella-didattica-moderna/ Le competenze di “Digital Storytelling”, nella Scuola di ogni ordine, stimola tutti gli “attori” protagonisti del sistema a costruire nuovi percorsi di apprendimento, rimettendo positivamente in gioco i reciproci ruoli e favorendo una nuova relazione tra docente e discente. Potremmo inoltre dire che, introducendo lo storytelling nella didattica della scuola, si contribuisce a superare il modello verticale di apprendimento.
3 Le scuole in natura http://www.tuttaunaltrascuola.it/scuole-natura-senso-comunita/ Sono sempre più diffuse, in Italia e nel resto del mondo, le scuole in natura, che si ispirano ai principi dell’outdoor education e includono realtà come asili e scuole nel bosco e al mare, agrinidi, etc.
4 CBL (Challenge Based Learning) https://www.challengebasedlearning.org/about/ E’ una modalità di apprendimento collaborativo e pratico, che chiede a tutti i partecipanti (studenti, insegnanti, famiglie e membri della comunità) di identificare “le grandi idee”, porre buone domande, focalizzare e risolvere le sfide, sviluppare abilità e condividere pensieri con il Mondo.
5 Shareradio – associazione di promozione sociale http://www.shareradio.it/author/radio-acra/

   

Radioweb che diviene contenitore delle redazioni create da ragazze e ragazzi con le scuole e i CAG milanesi. Si propone di coniugare nelle proprie attività forme di citizen journalism, story telling e media education, intese come discipline e processi di insegnamento e apprendimento collettivo sui media finalizzate al cambiamento sociale. Un esempio di come “scuola” e “fuori scuola” si possono unire.
6 Didattiche per ambienti di apprendimento DADA https://www.scuoledada.it/modello-dada Il progetto DADA nasce dall’idea di  valorizzare il buono del nostro sistema educativo, colmare il gap con i best performers europei, migliorare ed incrementare il successo scolastico di ciascuno studente favorendone dinamiche motivazionali  e di apprendimento efficaci per l’acquisizione delle abilità di studio proprie del Lifelong Learning.
7 Liceo Scientifico Statale “Vittorio Veneto” (MI) –

Progetto VV Plastic Free 

https://sites.google.com/liceovittorioveneto.edu.it/vvplasticfree19-20/home-page Tutta la scuola ha affrontato il tema della riduzione del proprio impatto ambientale con obiettivi diversificati, dalle prime alle quinte, creando un sito dedicato al lavoro svolto.
8 I.C. “Rita Levi Montalcini” Alzano Lombardo (BG) – Progetto #menticuorimani per seminare giustizia https://www.icalzanolombardo.edu.it/ Tema differente, stesso coinvolgimento. Marcia per il clima e individuazione di richieste sottoposte al Comune.
9 I.C. MODENA 3 https://www.ic3modena.edu.it/scuola-secondaria-di-i-grado-mattarella/

    

https://www.youtube.com/watch?v=hkVmtyJIm6s&t=215s

Scuola allestita in modo innovativo con CLUB IN. Da quest’anno i club sono inseriti nel sistema curriculare per affrontare diversamente le materie. Spazio specifico dove far convivere strumenti e metodologie specifiche secondo la propria vocazione culturale e di insegnamento.
10 I.C. Ungaretti di Melzo https://www.tuttoscuola.com/la-scuola-digitale-parla-stefania-strignano-la-ds-che-ha-guidato-il-cambiamento/

http://www.melzoscuole.edu.it/apple-distinguished-school/

Unico riconoscimento a livello europeo di scuola digitale.
11 Piano d’azione per l’istruzione digitale 21-27 EU https://ec.europa.eu/education/education-in-the-eu/digital-education-action-plan_it

   

Parla di migliorare l’utilizzo della tecnologia digitale per l’insegnamento e l’apprendimento, sviluppare competenze e abilità digitali e migliorare l’istruzione mediante una migliore analisi di dati previsionali. Fornisce una serie di linee guida applicative che dovrebbero essere implementate dagli stati membri. Anche se poi…
12 Piano Nazionale scuole digitale. Legge 107/2015 (La Buona Scuola) Pdf allegato (Fonte: www.istruzione.it) Il testo riporta  uno storico che inizia dal 2008… ma quanto eravamo pronti nel 2020?

Video e inchieste: HELLERUP LA SCUOLA SENZA CLASSI

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Autore: Indire – L’Istituto Nazionale di Documentazione, Innovazione e Ricerca Educativa (Indire) è da oltre 90 anni il punto di riferimento per la ricerca educativa in Italia.

Link: https://www.youtube.com/watch?v=3li_bch6RT8

Perchè lo proponiamo: la scuola finlandese non è sola: anche in Danimarca hanno un metodo simile. Quando riforma fa rima non con forma, ma con sostanza.

Video e inchieste: IL MODELLO FINLANDIA

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Autore: Presa Diretta (Rai)

Link: https://www.youtube.com/watch?v=Q0iNKtpNfBQ

Perchè lo proponiamo: la scuola finlandese è il nostro testimonial di questo numero. Il servizio, molto accurato, racconta come è avvenuta la transizione da una scuola tra le più arretrate d’Europa ad una delle più innovative, con la voce diretta di insegnati e studenti ed un approfondimento sulla gestione dei casi di ‘insuccesso’. 

Canzone: ARGENTO VIVO

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Autore: Daniele Silvestri

Link: https://www.youtube.com/watch?v=rP_y812oEe0

Perchè la proponiamo: ci piace perché è dura, esplicita, arrabbiata. Entra a gamba tesa nel desiderio di normalità del ‘mondo adulto’ e nelle sue (nostre) strategie di normalizzazione. Qui sotto alcuni stralci di una canzone lunga che vale tutta l’attenzione che chiede.

‘Costretto a rimanere seduto per ore
Immobile e muto per ore
Io, che ero argento vivo
Signore
Che ero argento vivo
E qui dentro si muore’

‘Questa prigione corregge e prepara una vita
Che non esiste più da almeno vent’anni
A volte penso di farla finita
E a volte penso che dovrei vendicarmi’

‘E mi ripetono sempre che devo darmi da fare
Perché alla fine si esce e non saprei dove andare
Ma non capiscono un cazzo, no
Io non mi ci riconosco e non li voglio imitare

Avete preso un bambino che non stava mai fermo
L’avete messo da solo davanti a uno schermo
E adesso vi domandate se sia normale
Se il solo mondo che apprezzo
È un mondo virtuale’

‘Sono fiori e scarabocchi il mio quaderno
Uno zaino come palla al piede
Un’aula come cella
Suonerà come un richiamo paterno
Il mio nome dentro l’appello
E come una voce materna
La campanella suonerà’

Nota: qui una pregevole versione con Rancore e Manuel Agnelli: https://www.youtube.com/watch?v=89Ww2bFLrrc

Film: I 400 COLPI

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Regista: François Truffaut (1959)

Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=EIv0xXjBfAQ

Il film in sintesi: Antoine, un ragazzo parigino di dodici anni preoccupa seriamente i genitori: spinto dalla sua indole insofferente e ribelle, egli combina infatti ogni sorta di guai. D’altra parte l’ambiente della famiglia e il comportamento dei genitori non possono esercitare un’influenza favorevole sullo sviluppo del fanciullo. Il ragazzo, che si trova a disagio in famiglia ed è incompreso a scuola, comincia a marinare le lezioni ed a vagabondare per Parigi in compagnia dell’amico Renè. Sorpreso a rubare una macchina da scrivere nell’ufficio del patrigno, Antoine viene messo in una casa di correzione: i genitori sono lieti di potersi liberare di lui e della responsabilità che loro spetta per il suo comportamento. Nell’istituto il ragazzo è costretto a umilianti esperienze, finchè un giorno decide di evadere. Approfittando di un rallentamento della sorveglianza, egli riesce a fuggire, ma non torna a casa. Prima di affrontare l’ignoto, egli vuole soddisfare un desiderio che da molto tempo nutre nel segreto dell’animo: vedere il mare. Si dirige così verso la spiaggia, non lontana dalla casa di correzione, finalmente libero e forse, per la prima volta, felice.

Perché lo proponiamo: lo diciamo con le parole di Truffaut: ‘All’inizio doveva essere un cortometraggio di venti minuti dal titolo La Fugue d’Antoine, […]la storia di un ragazzino che non ha il coraggio di tornare a casa dopo aver marinato la scuola e passa la notte in giro per Parigi, poi, a poco a poco, si è trasformata in una specie di cronaca dei tredici anni (l’età più interessante secondo me). L’adolescenza è un modo di essere riconosciuto da educatori e sociologi, ma negato da famiglia e genitori. Per parlare da specialista, direi che lo svezzamento affettivo, il sopraggiungere della pubertà, il desiderio d’indipendenza e il complesso d’inferiorità sono segni caratteristici di quell’età. Basta un solo atto di ribellione e questa crisi viene giustamente chiamata “originalità giovanile”. Il mondo è ingiusto, dunque dobbiamo sbrigarcela da soli: e si fanno i quattrocento colpi’ (che è un modo francese per dire ‘il diavolo a quattro).

Note: il film è stato premiato con la Palma d’oro a Cannes nel 1959 per la migliore regia.

Film: L’ENIGMA DI KASPAR HAUSER

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Regista: Werner Herzog (1974)

Una clip del film: https://www.youtube.com/watch?v=fjfGvugxGUg

Il film in sintesi: Norimberga, 1828. All’alba, in una piazza, compare come dal nulla un giovane sporco, lacero, che cammina a stento e sa dire una sola frase. L’unica cosa che è in grado di scrivere è la sua firma, Kaspar Hauser. Stringe tra le mani una lettera anonima nella quale si spiega che il ragazzo, abbandonato dalla madre, è stato allevato da un contadino che ora lo affida al capitano di cavalleria. con una lettera in mano. Il giovane, essendo stato rinchiuso in una cella sin dalla nascita, non ha mai visto un essere umano in vita sua, cammina a stento e non è nemmeno in grado di stare seduto a tavola. Tra chi lo reputa un impostore e chi, invece, l’accoglie e ospita nella propria casa senza remore, Kaspar impara lentamente a conoscere un mondo che gli è completamente nuovo. Dopo alcune vicissitudini viene adottato da un insegnante, il prof. Daumer, presso il quale troverà stabile dimora fino ai suoi ultimi giorni. Kaspar ha una ricca immaginazione artistica, ma è il solo a comprenderla: suona il piano seguendo una tecnica totalmente personale, inventa storie affermando di “conoscerne solo l’inizio”. Educarlo è difficile: rifiuta l’esistenza di Dio e ha una concezione delle cose innocente e fanciullesca, credendo, per esempio, che la frutta sia dotata di personalità propria. Attraversando vari (e fallimentari) tentativi di educazione subiti, Kaspar Hauser incapperà in un episodio drammatico che poterà la storia verso il suo epilogo.

Perché lo proponiamo: tratto da una storia vera, il film esplora l’eterna questione del ‘buon selvaggio’ e della tensione tra natura e cultura che lacera la storia di Kaspar. E la nostra?

Nota: dalla questa storia è stato tratto un omonimo episodio a fumetti di Martyn Myster per la storica casa editrice Bonelli.

Film: DOV’E’ LA CASA DEL MIO AMICO

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Regista: Abbas Kiorastami (1987)

Una clip del film: https://www.youtube.com/watch?v=NAjq-q6F3Kw

Il film in sintesi: Al centro della trama vi è Ahmed, un ragazzino che dopo essere tornato a casa da scuola si è accorto di avere portato con sé erroneamente il quaderno del suo compagno di banco Mohamed. Il film, nello specifico, racconta il suo viaggio tra i villaggi di Koker e di Poshteh per riconsegnare l’oggetto al suo proprietario, consapevole del fatto che se Mohamed si presenterà il giorno successivo a scuola senza aver svolto i compiti sul proprio quaderno verrà espulso. La sua ricerca tuttavia non è priva di impedimenti, dal momento che il bambino non conosce con esattezza dove il compagno vive. Perso tra i vicoli dei villaggi, Ahmed si troverà più volte al centro di malintesi, circondato da adulti che non gli prestano attenzione o che lo gravano di compiti futili. 

Perché lo proponiamo: più che il contenuto, il senso: il mondo visto dai bimbi è un intreccio di relazioni che a volte sostengono, a volte distorcono, a volte trattengono una spinta a vivere che non si può fermare.

Film: ALICE NELLE CITTA’

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Regista: Wim Wenders (1973)

Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=pGuZWGkux8c

Il film in sintesi: Morandini, che in fatto di cinema è un’autorità, lo racconta così: “Giovane giornalista in crisi di identità incontra all’aeroporto una compatriota con la figlia. Per una serie di circostanze si ritrova con la bambina a carico e non sa come sbarazzarsene. È uno di quei film “moderni” dove non succede niente: quello che racconta è il rapporto tra l’uomo e la bambina e il mutamento che il viaggio in comune opera nei due personaggi. Piacevole, gradevole, commovente, è da vedere: la piccola Y. Rottländer è il più bel progetto di donna che da anni si sia incontrato su uno schermo.”  

Perché lo proponiamo: il film è un grande classico che raccontala la ricchezza trasformativa l’incontro tra adulti e bambini.

Comunità in gioco

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In questo momento difficile, cosa sei disposto a perdere?

Siamo partiti da uno sguardo sulle singole persone indagando modi diversi di affrontare le difficoltà: cercare la sicurezza nella pianificazione o accettare un equilibrio instabile e sempre in movimento?

Ci siamo occupati poi di impresa, mettendo a confronto due sguardi: uno più teso a proteggere l’azienda e le sue risorse interne, l’altro convinto che la miglior protezione sia spalancare i cancelli e legare impresa e comunità.

Questo numero, ultimo della trilogia, indaga il tema delle comunità. Cosa siamo disposti a perdere per dare un futuro migliore alle comunità in cui viviamo?

Il tema, trattato nel dibattito nazionale, è di quelli che dividono: valorizzare le identità locali o prendere atto che la globalizzazione le ha già messe all’angolo? Cercare il futuro mettendo la propria storia e identità al centro o mettersi a disposizione dei cambiamenti in atto, puntando al miglior ‘qui e ora’ possibile? 

Due sguardi che disegnano due scenari. Anche in questo numero il testimonial racconta il punto di vista della redazione. Buona lettura.

Futuri generativi

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In questo momento difficile, cosa sei disposto a perdere per dare un futuro migliore alla tua comunità?

La centralità della mia organizzazione rispetto alle altre

Siamo una comunità che vive: siamo attraversati da flussi culturali che non governiamo. Vale per i migranti, ma vale ancora di più per l’economia, l’informazione, le tecnologie.

Il mondo è in un flusso costante di cambiamento in cui siamo immersi: il nostro mondo e il nostro modo di vivere sono la sintesi di culture e di diversità che si avvicinano, si moltiplicano, si incrociano e si modificano. Se pensiamo al futuro della nostra comunità dobbiamo vederlo così, aperto. 

Il modo migliore per fare comunità in questo contesto è accogliere e accompagnare il cambiamento facilitando l’incontro, abbassando le barriere, riducendo le distanze.

Non è questione di stare vicino a chi è più in difficoltà, o almeno non solo. Serve mettere in gioco la comunità intera per giocare una partita a tutto campo, perché quando una comunità è inclusiva e solidale lo è per tutti: italiani o migranti, ricchi o poveri, disoccupati o imprenditori. Ognuno ha le sue difficoltà, ognuno è risorsa. Ma la vera risorsa, quella che mette tutto a valore, è la capacità di creare relazioni e collaborazioni.

Abbiamo intervistato don Paolo Steffano, parroco a Baranzate, che esordisce nella sua intervista affermando che, quando tutto è perduto, quello che resta sono solo le relazioni… ma dalle relazioni che lui ha costruito è rinato un mondo.

La comunità delle radici

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In questo momento difficile, cosa sei disposto a perdere per dare un futuro migliore alla tua comunità?

L’inclusività e la globalizzazione\

La comunità siamo noi, la nostra storia, il nostro territorio, la cura che abbiamo per il luogo e la cultura che ci appartiene. E’ nel nostro territorio che troviamo i legami che ci danno forza, il senso del nostro stare insieme. Se la comunità può rinascere, lo fa da qui: dal portare a valore tradizioni e bellezze, sapori e usanze che ci fanno unici e preziosi.  

Non tutto è valore, o non lo è allo stesso modo. Per uscire dalle secche del difficile presente ci serve ricordare chi siamo e ripartire da lì. Ci sono riusciti in piccoli paesi di montagna dove la tosatura delle pecore o la produzione tradizionale del formaggio sono diventati risorsa economica, lavoro e sviluppo. Ci sono riusciti nei capoluoghi di provincia che si pensano come Museo a cielo aperto della nostra identità: basti pensare a Parma e Matera, le più recenti città a essere Capitali italiane della Cultura. 

E’ nella ricerca della nostra identità più profonda che nasce il futuro della comunità: siamo il Paese delle differenze. Ogni comune ha una storia, un monumento, un dialetto, un artigianato, un personaggio che lo rendono unico.  Il nostro futuro è iniziato 1000 anni fa. 

Possiamo dedicare le nostre attenzioni anche all’inclusione e alle culture diverse, ma se perdiamo la nostra cornice identitaria, disperdiamo valore e senso.

Di questo racconta l’intervista al Sindaco di Gottolengo (Bs) che ci racconta come le radici profonde non gelino mai.

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