Come vivi questo momento di crisi?

Per certi versi con sollievo. Siamo stati precari per molto tempo, sentendoci più in difficoltà di tanti altri. Adesso ci sentiamo allo stesso livello: siamo in difficoltà tutti. In questo siamo forse avvantaggiati: veniamo da una lunga pratica nella ricerca di equilibrio.

Cosa intendi con equilibrio?

La precarietà è un esercizio di equilibrio, innanzitutto mentale. E’ la ricerca di una posizione personale tra la realtà, l’esperienza quotidiana, e la rappresentazione che della realtà danno dall’esterno, ad esempio, i mass media che ci rappresentano continuamente sull’orlo del baratro. Magari lo siamo anche, ma questo continuo rappresentare preoccupazioni per ciò che verrà è inutile e dannoso. La lettura mediatica ci spinge ad aver paura, a proiettarci nel domani caricandoci di ansia per ciò che accadrà invece che a stare nell’oggi, nel presente. Cito solo un dato: vero è che tante persone sono in difficoltà, ma molti altri durante il lockdown hanno risparmiato e hanno oggi più risorse di un anno fa. Non è questione di dire che domani non avremo problemi: è che oggi è così. Questo è un dato che la preoccupazione per il futuro ci impedisce di vedere.

Allo stesso modo, è possibile anche cercare equilibri diversi come imprese. Quando guardiamo all’impresa con occhi oggettivi vediamo il bilancio, il fatturato, magari i debiti. Se la consideriamo nella sua dimensione di esperienza invece, cercare un equilibrio nel lavoro vuol dire anche aderire al lavoro nei suoi significati: il lavoro se lo guardiamo con gli occhi dell’esperienza è anche un elemento di senso. Trovare equilibrio significa pensare alla cooperativa dando valore a quello che nel lavoro ci ha sempre interessato, le ragioni per cui ci siamo appassionati, quello che vorremmo ci accompagnasse fino alla pensione. Per me, ad esempio, la cooperativa è stata l’esperienza dell’uguaglianza, del dare possibilità a tutti, sempre, anche nelle difficoltà dei percorsi personali e dell’impresa.

L’equilibrio che descrivi è una ricerca continua. Che cosa può minacciarlo?

La minaccia più pericolosa è l’oggettivazione. E’ guardare alla nostra storia con uno sguardo esterno, non empatico, che non tiene conto dei significati che abbiamo costruito. Il revisore di Confcooperative che ha ispezionato la cooperativa, ad esempio, l’ha guardata con distacco: ha visto che abbiamo qualche arretrato con gli stipendi, che abbiamo difficoltà finanziarie, e ci ha invitato a considerare l’ipotesi di portare i libri in tribunale. Certo, ci ha messo in crisi. Non certo perché ci ha reso evidenti i nostri limiti: la nostra situazione economica la conosciamo molto bene. Mi ha messo in difficoltà misurarmi con uno sguardo che non tiene conto delle persone, della nostra storia. Cosa cambierebbe se chiudessimo? Le persone sarebbero ugualmente senza stipendio, prive di prospettiva: perderebbero anche quello spazio di benessere che è la relazione tra noi, venire a lavorare in un posto in cui stiamo bene, in cui condividiamo le fatiche e le frustrazioni, ma anche le relazioni, la vicinanza, e la speranza che le cose si possano sistemare. Mi chiedo se il compito di chi ispeziona le cooperative sia placare le proprie ansie mettendosi al sicuro con dati oggettivi, o mettere le proprie osservazioni a sostegno di chi ci crede, di chi si impegna.

Per carità, il punto di vista oggettivo, dei numeri, esiste e lo sappiamo bene. Abbiamo sicuramente fatto anche degli errori. Ma l’oggettività della lettura non aiuta nessuno. Certo anche tra noi ci sono state persone che si riconoscevano in quell’impostazione, e hanno cambiato lavoro già da tempo. Ma noi qui accogliamo e diamo lavoro a persone fragili che pensano a questo come posto in cui stare bene, lavorare, invecchiare. Chi è rimasto è chi si aspetta di trovare in cooperativa un suo equilibrio. Qual è la realtà? Lo sguardo sindacale che da fuori ci richiama ai nostri obblighi contrattuali o la quotidianità di chi qui dentro ha trovato un posto dove stare, un accomodamento per la propria vita a volte difficile e sola?

Cos’è la precarietà? Un posto dove per ora hai preso lo stipendio tutti i mesi ma sei in balia delle scelte di altri, o un posto dove -con onestà- fin dall’inizio si è prospettata una realtà economicamente fragile ma dove le persone fragili avevano modo di costruirsi una professionalità, di darsi una rappresentazione di sé dignitosa, di essere fieri di quello che stavano facendo? Oggi quello che temiamo non è la crisi… è che qualcuno dall’esterno ci imponga una chiusura che non tiene conto di noi.

E il futuro? Come lo vedi?

Paradossalmente, fa molto meno paura a me e a noi che a tanti altri. Innanzitutto siamo abituati, da sempre alla precarietà ma anche all’apertura verso il cambiamento. Sappiamo che le cose cambiano: i contesti, le opportunità, le condizioni. E ognuna ha i suoi pregi e i suoi difetti. Un amico africano mi ha insegnato che non dobbiamo preoccuparci se piove: verrà il sole e ci asciugheremo. La pioggia passa. E certe volte stare sotto la pioggia può essere piacevole come stare sotto il sole, o viceversa stare sotto il sole può essere fastidioso come prendere acqua.  Ad ed esempio nelle difficoltà si fa più squadra, si dà più valore alle relazioni, ognuno è apprezzato per il ruolo che ricopre e per il contributo che può dare nel gruppo. Quando sei da solo sei prigioniero delle tue ansie e dei tuoi pensieri, quando siamo insieme ci curiamo e ci rassicuriamo a vicenda.

Vendiamo al cuore dell’intervista: cosa sei disposto a perdere per stare nel futuro che desideri?

Beh… la sicurezza economica l’avevamo già persa. Sono disposto a perdere lo sguardo fisso sul domani: chi vive nell’oggi è meno esposto alle ansie, e se è da solo queste ansie diventano facilmente paure, anche grandissime. Le persone più isolate e fragili sono facilmente vittime delle proiezioni delle paure degli altri, mass media in testa.

So cosa non voglio perdere: due cose, che forse sono due lati dello stesso tema. Innanzitutto la libertà di scegliere di cose voglio occuparmi qui in cooperativa: l’opportunità di imparare, di cambiare mansione, di mettermi in gioco in ruoli diversi. E poi la consapevolezza che non sono gli oggetti, i contesti, a determinare la fine (o il fine) della vita di un uomo. Io lavoro in cooperativa ma ho altri ruoli nella mia comunità e in tutti faccio sempre lo stesso lavoro: connetto, costruisco collaborazioni per costruire la comunità. Dentro e fuori dalla cooperativa, al lavoro o nella mia vita, questa cosa non cambia, non ha un confine.

In fondo le turbolenze non finiscono mai. Questa passerà e ne verranno altre, e non è certo solo l’elemento economico che genera disequilibri. Certe volte i problemi assumono la forma dei soldi, ma hanno altre sostanze che li hanno generati. Certe volte, anzi, parlare di crisi economica è un modo legittimato e facile per dire un disagio che è, ad esempio, la mancanza di uno spazio di vita o di lavoro in cui sentirsi in armonia, in cui sentiamo che la sicurezza viene da noi stessi e non dall’esterno.

Per il resto essere disposti a perdere non è frutto di un calcolo. E’ -appunto- una continua ricerca di equilibrio in cui tutto è in gioco: tempo, relazioni, risorse…

Basta pensare a noi stessi non come realtà intoccabili e vittime di circostanze sfortunate, ma come uno dei 7 miliardi di abitanti del pianeta, molti dei quali molto più sfortunati di noi. Non c’è una sola lettura della crisi, non c’è una definizione a priori di cosa e possibile e cosa no: dipende dal punto di vista che si vuole tenere. Il nostro, il mio, parte dall’attenzione alle persone. Il resto è conseguenza.

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