Don Paolo Steffano ha 56 anni: è parroco di Baranzate, nella cintura milanese, e dal 2004 ha dato vita a un progetto di animazione della comunità che ha pochi eguali in Italia. ‘Un Pastore con l’odore delle pecore in un quartiere che è l’emblema della multietnicità’ lo ha definito di recente il quotidiano Avvenire in un lungo articolo a lui dedicato, cogliendo con un’immagine molto efficace la vicinanza tra don Paolo e la ‘sua’ gente. Don Paolo è un fiume in piena e il suo racconto ci travolge per un’ora con una parlata meneghina che strizza l’occhio al Milanese Imbruttito e una ironia irriverente che lo fa somigliare decisamente più a Giuseppe Parini, e la storia che dipinge è un continuo colpo di scena.

In questo periodo, cosa le nostre comunità locali devono perdere per salvaguardare sé stesse? Con che strategia possono avere un futuro?

Ribalterei la domanda: cosa rimane dopo tutte le perdite? Rimane il radicamento nel territorio che per noi vuol dire investire tutto nelle relazioni. A Baranzate abbiamo costruito con la comunità molti servizi: il doposcuola, la distribuzione dei viveri… la pandemia ha messo tutto in discussione. Non siamo più riusciti a fare le cose come prima, abbiamo perso il nostro modo ‘normale’ di gestire le attività. In tutto questo cambiamento noi ci siamo chiesti non come risolvere i problemi che stavano emergendo, ma come tenere vive le relazioni che avevamo costruito.

Pensare di essere ‘quelli che risolvono i problemi‘ si porta dietro ancora un po’ di ‘puzza di assistenza’. La nostra utilità non è nel risolvere i problemi, ma nel creare relazioni che tengono le persone in gioco ognuno per il proprio ruolo e per la propria esperienza. Dopo tanti anni di lavoro nella comunità ci siamo accorti che l’inclusione non passa da progetti e attività pure belli e interessanti. Passa invece dal radicamento in un territorio che crea relazioni tra le persone.

Noi siamo una realtà di parrocchia ma per lavorare in un modo più aperto e non confessionale abbiamo dato vita prima a una associazione e poi alla fondazione IN-OLTRE che fin nel nome ha la sua vision: IN cioè essere radicati e incarnati, ma anche OLTRE per uscire dai nostri confini.

Faccio un esempio. Abbiamo lanciato la raccolta di punti del supermercato Esselunga per trasformarli in buoni spesa da dare a persone in difficoltà, e ce ne hanno donati una enormità. Ne è nato un progetto che si chiama ‘Esselunga nutre le periferie’ che trasforma i punti e le donazioni raccolte da sponsor in sostegno a piccole realtà vivaci ma senza grandi strumenti anche in territori diversi dal nostro. Come Fondazione abbiamo scelto di andare noi a cercare la piccola associazione che ha aperto un negozietto, il gruppo di donne… Li incontriamo, ragioniamo con loro, e ad ogni 6.000 euro raccolti facciamo partire un progetto di sostegno. La Fondazione non è la banca della parrocchia e i fondi che raccogliamo non servono a mantenere la nostra struttura: certo, sostiene l’associazione di Baranzate ma è nata per andare oltre, per sostenere soggetti piccoli che provano a fare comunità. Non sosteniamo le organizzazioni grandi e note: loro le risorse sanno come cercarle. Ci occupiamo di realtà belle e buone, magari non tanto strutturate, che sono nate come siamo nati noi: dal basso e con pochi mezzi. L’importante è il radicamento territoriale venga prima del progetto, perché i progetti, a volte, sono fini a se stessi. In tempi di pandemia ad esempio alcuni progetti hanno raccolto più fondi di prima, e il dramma di alcuni è diventato ricchezza per altri. Il caso dei migranti è emblematico.

Quindi oggi, dopo 15 anni, tu sei diventato un finanziatore di altre comunità?

Da sempre noi abbiamo chiesto ai finanziatori: aiutateci a essere autonomi. Ora abbiamo anche finanziatori importanti e chiediamo loro di sostenerci non per strutturarci meglio o diventare più grandi avviando nuove attività o assorbendo progetti di altri, magari in difficoltà. Ci sono già tante realtà che gestiscono servizi. Noi abbiamo scelti non di diventare competitor con realtà che ci sono già, ma di occuparci di quello che manca. Per noi il risultato non è passare da 15 a 25 appartamenti che gestiamo per accogliere le famiglie. Il vero successo è coinvolgere un quartiere, prendere 3 appartamenti in affitto calmierato e seguirli così bene da non avere -ad esempio- morosità: che è il segno di un accompagnamento che funziona davvero.

La vera novità su cui stiamo lavorando non è tenere per noi le risorse, ma sostenere l’empowerment delle piccole realtà di cui è piena l’Italia. L’unico vero indicatore di interesse per noi è il radicamento territoriale, la capacità di continuare a lavorare nella comunità nel tempo, anche oltre i progetti: che sia a Molise Calvairate o in Bolivia o in Ucraina, che sono i paesi da cui provengono alcune delle persone con cui lavoriamo a Baranzate. Non solo per noi. 

Chi sono gli interlocutori prioritari coi quali condividere una strategia di cambiamento? Come costruisci le tue alleanze?

Per noi il lavoro, anche la costruzione di alleanze, parte dal basso, dalla concretezza del lavoro sul campo. Lavorando sui territori incontri tante persone, a volte anche persone ‘che contano’. Noi non li andiamo a cercare con progetti o proposte politiche. Li incontriamo quando passano da noi, quando vivono la nostra realtà e ci vedono lavorare. Ci sostiene chi si lascia contagiare, chi crede nel nostro modo di proporre il cambiamento. Paolo Barilla, che ci sostiene, è venuto 10 volte a mangiare un panino al bar: non per sentirsi ringraziare e nemmeno per controllare i lavori che ha sostenuto. Viene da noi per sentirsi parte del cambiamento che lui sta aiutando a costruire. E come lui Corrado Passera che ci ha aiutato con delle consulenze, o la Dottoressa Bracco. Anche noi facciamo lo stesso, e andiamo in giro a vedere a Verona, a Torino, a Scampia… 

Noi, un po’ per necessità e un po’ per storia, non abbiamo convenzioni con i Comuni che certe volte non si sa se non hanno gli occhi per piangere o il cervello per decidere. Certo le risorse dei bandi aiutano, ma alla lunga quella logica ti logora. Noi abbiamo scelto di essere liberi: certo in questo avere l’aiuto di grandi finanziatori ci aiuta, ma abbiamo sempre lavorato perché le nostre attività fossero sostenibili… quello che non è sostenibile si regge su alleanze, ma sempre nella logica che quello che ci arriva non è solo per noi. Paradossalmente, questa scelta di sostenere altre realtà attira su di noi più risorse.

In una comunità è più funzionale avere un protagonismo diffuso e pochi soggetti trainanti?  Quali sono i luoghi decisionali che permettono di garantire la partecipazione di ognuno al progetto di sviluppo della comunità?

Io sono in uscita: a settembre lascio Baranzate, e la pandemia mi aiuterà a fare un passaggio senza enfasi. L’associazione è nata per un protagonismo diffuso. Quando siamo partiti è ovvio che facessi tutto io perché per partire bisogna sfondare, ma sapevamo che era necessario condividere. Oggi abbiamo una struttura decisionale diffusa attraverso il direttivo, i capi area e i coordinatori. Negli ultimi due anni tutto questo è cresciuto, gestisce e decide al di là della mia figura… sicuramente io influenzo, sono anche ingombrante, ma l’organizzazione è cresciuta, e settembre sarà l’occasione piena di un passaggio generazionale che è cresciuto in dieci anni condividendo il senso di responsabilità.

Del resto ‘far crescere’ è il nostro stile: dare una spinta a realtà che procedono per conto proprio. E’ un modo per non appesantire la propria organizzazione e per far sì che ciascuno si prenda le proprie scelte in mano fino in fondo.

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